Massimo Gaggi, Corriere della Sera 30/5/2008, pagina 44, 30 maggio 2008
Corriere della Sera, venerdì 30 maggio Li hanno soprannominati stealth layoffs, i licenziamenti invisibili
Corriere della Sera, venerdì 30 maggio Li hanno soprannominati stealth layoffs, i licenziamenti invisibili. Avvengono, di solito, nei giorni centrali della settimana: martedì, mercoledì o giovedì. Come se bastasse non essere mandati via al venerdì per evitare la depressione di un fine settimana tappati in casa a rimuginare sulla propria sventura. «Ti chiamano, ti dicono che la tua posizione è stata soppressa e ti invitano ad andare via senza nemmeno tornare alla tua scrivania. Per non turbare il clima in ufficio. Gli effetti personali te li mandano poi a casa». Le storie sono ormai tante. Tutte uguali e tutte anonime. Negli Usa non c’è la liquidazione: le banche che, in crisi finanziaria, tagliano gli organici, in genere offrono una buonuscita (varia, in genere, dalle 10 settimane a un anno e mezzo di retribuzione) in cambio della quale il dipendente in esubero si impegna ad andar via in silenzio, a non parlare con la stampa e a non aprire controversie giudiziarie. Tutto avviene senza troppo clamore. I «media» se ne occupano ma con toni pacati, non ci sono manifestazioni per le strade. Ma, silenzioso o no, per i colletti bianchi è un vero terremoto: dall’estate scorsa le banche hanno comunicato piani per una riduzione degli organici di 65 mila unità. Non è tutto: ogni settimana che passa si aggiungono nuovi tagli e nessuno sa quando e dove si fermerà la discesa. A fine 2007, ad esempio, il gigante bancario Citigroup aveva annunciato una riduzione di 17 mila addetti. A gennaio, però, sono emersi altri 4200 esuberi e ad aprile al conto sono state aggiunte altre 8700 posizioni da eliminare. Tagliano le banche e le finanziarie messe con le spalle al muro dalla crisi ma anche quelle in salute: perfino la solidissima Goldman Sachs, celebre per i profitti giganteschi e per la sua abitudine di distribuirli attraverso i bonus non solo ai top manager ma anche a segretarie, autisti e uscieri, sta riducendo i suoi addetti dell’ 8%. La più grave crisi economica Usa dalla Grande depressione di 80 anni fa, si sta portando dietro anche una crisi psicologica. Gli americani hanno l’ottimismo impresso nel Dna, ma per molti di loro stavolta è veramente difficile ritrovare la serenità: interi ceti professionali sono finiti in una «tempesta perfetta» fatta di incertezza del lavoro, aumento dei prezzi a partire da cibo e benzina, rischio di perdere la casa per la crisi dei mutui, chiusura improvvisa dei rubinetti del credito. Aggiungiamoci che molti datori di lavoro non sono più in grado di garantire a dipendenti e pensionati un buon livello di assistenza sanitaria e che i minori rendimenti finanziari rischiano di «restringere» l’assegno col quale vivono molti pensionati e il quadro è completo. Un quadro desolante dietro il quale c’è un Paese attonito, ma che alla fine prende atto realisticamente della nuova realtà, riduce le sue aspettative e si prepara a recuperare competitività ripartendo da basi più spartane. Il prezzo sociale di questo processo è, però, altissimo, e per la prima volta a pagarlo sono soprattutto i ceti a reddito medio e persino quelli affluenti. Massimo Gaggi