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 2008  maggio 30 Venerdì calendario

Klaus Dibiasi. la Repubblica, venerdì 30 maggio C´era un angelo con i riccioli, immobile su una piattaforma di cemento, in attesa del volo

Klaus Dibiasi. la Repubblica, venerdì 30 maggio C´era un angelo con i riccioli, immobile su una piattaforma di cemento, in attesa del volo. Inquadrato di profilo, non un solo muscolo si muoveva sul viso. Klaus Dibiasi stava per tuffarsi verso la prima delle sue tre medaglie d´oro olimpiche consecutive, era il 1968, anno totemico, a Città del Messico. Quarant´anni fa. «In quei momenti chiedi informazioni a te stesso. Ti tuffi dentro la tua testa, ripassi ogni movimento che dovrai eseguire nel secondo e mezzo che verrà: tanto dura un tuffo, un secondo e mezzo eterno. Non pensi a niente: ripeti, immagini, prevedi. Perché sei un tuffatore: sei un artista, un ginnasta, un narcisista e un robot meccanico». «Avevo ventuno anni. L´atleta è sempre isolato prima di una grande gara. Ci fu la strage della piazza delle Tre Culture, mai saputo il vero numero dei morti, trecento, tremila, chissà. Non capimmo che poteva saltare l´Olimpiade, non sapevamo quasi nulla, insabbiavano, nascondevano: lo sportivo non deve sapere. Però sai di essere nella storia anche quando non scorre il sangue. A Mexico City ci fu anche la protesta dei neri sul podio, col pugno guantato. Eravamo già via, lo seppi dai giornali. Come atleti, condannammo i nostri colleghi americani: non sembrava possibile rovinare la sacralità della premiazione. Dopo fu chiaro che quello, invece, era stato un momento simbolico di grande valenza». «Il mio rivale più agguerrito era un messicano, Gaixiola, forte ma non fortissimo: il tifo lo fece volare, letteralmente, e un po´ condizionò anche la giuria. Io sbagliai un tuffo solo, nelle finali mi è quasi sempre successo, fuorché a Montreal dove per battere Louganis che era giovane e fortissimo dovevo essere perfetto, e così fu. Oggi mi scopro molto sorpreso di me stesso, sono stato un campione graduale, sempre in crescita, tuffarmi era quasi un hobby però da cento voli al giorno per essere il migliore. La tecnica è uscita fuori con me». «A Tokyo ´64 avevo appena diciassette anni, e non mi ero mai tuffato in una piscina coperta. Ero abituato ai riferimenti che servono all´aperto per trovare il giusto movimento, un albero, le nuvole, una collina. Al chiuso sbagliavo, entravo in acqua di schiena, volevo andare via. Poi presi le misure a me stesso e allo spazio che mi circondava, e arrivò la medaglia d´argento dalla piattaforma. Tutto è lenta conquista, è pazienza. Il nostro è uno sport di destrezza a ciclo chiuso, rincorrendo la perfezione. Si procede per automatismi, attraverso impercettibili correzioni. Sei una macchina che alla fine si logora, e io nel ´76 avevo i tendini sfasciati, più che tuffarmi zoppicavo. Eppure vinsi. Perché il segreto è durare. Io cominciai a dieci anni, questi incredibili cinesi di oggi iniziano a quattro. Sono stato a Pechino, ho visto dove li allevano: dentro capannoni lunghi cinquanta metri e larghi venticinque, con otto tappeti elastici interrati, tredici trampolini e i materassi: tutto a secco. Ad agosto i cinesi domineranno in casa loro, naturalmente, e hanno già pronti i campioni delle prossime due edizioni. Quando i tecnici della Germania Est vennero al Foro Italico per vedere dove ci allenavamo noi, si trovarono di fronte una palestra, un tappeto e il pavimento di marmo: pensavano di essere stati ingannati, e che avessimo nascosto tutto. Invece non avevamo niente di più». «C´erano gli americani con i costumi elasticizzati, di gran moda. Allora comprammo la stoffa e chiedemmo a mia madre di realizzarli uguali: lei ci riuscì, anche se erano un po´ alti, sopra l´ombelico, quasi ascellari, alla Fantozzi. Come premio dell´oro messicano mi diedero un milione di lire, più una Fiat 500 beige: ci girai le montagne, l´avevo chiamata Olimpino: misi una scritta con quel nome vicino alla targa. Erano tempi così, di passioni ingenue». «La strage di Monaco ´72 la vedemmo dai giornali, perché le nostre gare erano già finite. Era incredibile, inimmaginabile, ma adesso capisco. Entrare al villaggio era semplicissimo, io stesso portavo gli amici prestando le nostre tute azzurre, non c´erano controlli di nessun tipo». «La mia specialità era l´entrata in acqua senza sollevare spruzzi: scrissero che facevo lo stesso rumore della seta quando si strappa. Perché alzavo i polsi invece di mettere le mani a preghiera, creando una specie di rostro e dietro, nella cavità che si formava, la pressione risucchiava l´acqua. Il mio maestro era papà Carlo, decimo ai Giochi di Berlino ´36. Passavo le mattine a osservarlo, lui che era stato anche il custode della piscina, a Bolzano. Un giorno gli chiesi di provare: non aspettava altro». «La paura esiste e si controlla. Non deve mai essere assoluta: in testa hai altre priorità. Ho fatto anche l´allenatore della nazionale, ho girato il mondo, la mia è stata una vita bellissima. Non si vive di ricordi, però ricordare è bello: dentro il telefonino ho messo le fotografie dei miei vecchi tuffi, eccole. Ma non mi sono mai più tuffato. Ho provato, ho capito che non era possibile. Non sapevo più volare, e ne avevo vergogna».