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 2008  maggio 28 Mercoledì calendario

Tuttoscienze, mercoledì 28 maggio La neurobiologia è una disciplina relativamente recente, ma questo non le ha impedito di compiere straordinari progressi nella comprensione del modo in cui funziona il cervello

Tuttoscienze, mercoledì 28 maggio La neurobiologia è una disciplina relativamente recente, ma questo non le ha impedito di compiere straordinari progressi nella comprensione del modo in cui funziona il cervello. Esiste tuttavia un campo di indagine per il quale non è stato ancora chiesto il suo aiuto, quello della comprensione dell’arte, della letteratura, della musica, del pensiero religioso. Io sono però convinto che uno studio approfondito di queste materie - che faccio rientrare in un ambito di indagine che definisco «neuroestetica» - potrà costituire un contributo di incalcolabile portata alla conoscenza del funzionamento della nostra mente. Il motivo di questa indifferenza va cercato nell’opinione secondo cui la creazione e l’apprezzamento di un libro o di una canzone rientrino nella sfera intima della sensibilità soggettiva. A prima vista, quindi, sembrerebbe che l’approccio biologico non faccia emergere una piattaforma comune ai singoli individui. Un’argomentazione, questa, in parte corretta, che si fonda su una realtà importante, la variabilità umana. Darwin, nell’«Origine delle specie», sostiene che la variabilità, tra i caratteri principali che determinano l’evoluzione, è più marcata nelle strutture che evolvono più rapidamente. Il cervello è, per l’appunto, l’organo più variabile e che evolve più rapidamente. Al momento, però, non possiamo ricondurre a una specifica componente cerebrale questa variabilità. Possiamo, al più, ipotizzarne l’esistenza nelle differenze che constatiamo, tanto per fare un esempio, nell’intelligenza, nella sensibilità, nelle capacità creative. L’arte è proprio un’espressione di questa variabilità e l’indagine neurologica può evidenziare non solo l’origine di una delle esperienze soggettive più ricche di cui disponiamo, ma anche i fattori determinanti della creazione e del godimento dell’opera d’arte. La variabilità porta enormi vantaggi: arricchisce le culture ed è un fattore chiave dell’evoluzione delle società. Trattandosi di un imperativo, esige tuttavia uno scotto elevato. E’ spesso causa di gravi ingiustizie ed emargina molte persone, la cui condotta o le cui inclinazioni sono giudicate come deviazioni. Per paradossale che possa apparire, è questa realtà ad arricchire l’arte e, quindi, contribuisce all’evoluzione culturale. L’arte, infatti, salvaguarda - e recupera - gli effetti distruttivi e asociali della variabilità nell’opera artistica, nella letteratura come nella pittura. Il «Don Giovanni» di Mozart volge in musica sublime la vita di un libertino, che non avrebbe trovato indulgenza in un tribunale: lui affronta il suo fato biologico con coraggio e dignità come fa, per esempio, il protagonista del «Coriolano» di Shakespeare, il quale, per costituzione, è divorato dall’orgoglio e dall’arroganza. Organizzazione sociale Se è vero che queste rappresentazioni artistiche della variabilità non hanno avuto che modesti risvolti nella società e nel diritto, è anche vero, però, che nel momento in cui la neurobiologia comincerà a mappare i fondamenti neurologici della variabilità stessa le nuove conoscenze condizioneranno profondamente la nostra organizzazione sociale, da quello educativo a quello politico. Intanto, però, non ci rendiamo sufficientemente conto del fatto che la soggettività è fondata su basi comuni a tutti gli esseri umani e non riconosciamo abbastanza come la quasi infinita variabilità creativa scaturisca da processi neurobiologici comuni. L’arte e la porzione di cervello deputata alla visione forniscono un buon esempio. Il cervello visivo è simile in tutti gli individui. Consiste di diverse aree, ciascuna delle quali è specializzata nell’elaborare una specifica componente della scena. L’area V5, per esempio, è specializzata nel moto visivo. Le sue cellule riflettono perfettamente il moto di uno stimolo in una certa direzione, mentre sono indifferenti al colore o alla forma. La scoperta di questa area è stata, perciò, un’acquisizione cruciale per la dimostrazione della specializzazione funzionale della mente. Gli artisti, d’altra parte, da sempre sono arrivati alle stesse conclusioni, pur non sapendo nulla del cervello. Esponenti dell’arte cinetica, come Alexander Calder e Jean Tinguely, hanno dato vita a opere che pongono l’accento sul moto e sottraggono enfasi al colore e alla forma. Le loro composizioni sono state «progettate» in modo così straordinario per la stimolazione delle cellule dell’area V5 da anticipare proprio i dati sulle proprietà fisiologiche delle cellule moto-selettive. Tra i neurobiologi che studiano la visione sono in molti a credere che siano queste cellule le componenti strutturali della percezione della forma. Ma molto prima della loro scoperta, Piet Mondrian, «alla ricerca delle verità permanenti della forma», privilegiò la linea retta quale elemento fondamentale delle sue composizioni. E la linea retta è stata adottata da molti altri pittori, tra cui Kazimir Malevic, che la introdusse nel «suprematismo», ossessionato dal desiderio di riportare sulla tela non quel che è «fuori» nel mondo, ma ciò che si trova nella mente (o nel cervello) dell’artista. Come scrisse Paul Klee, «l’arte non riproduce il visibile, ma rende visibili le cose». Così facendo, l’arte visiva obbedisce alle leggi del cervello visivo e le rivela. Di queste, due sono le leggi fondamentali. La prima è la «legge della costanza». Tenuto conto del fatto che l’informazione che raggiunge il cervello visivo muta di momento in momento, la costanza è la funzione cerebrale che consiste nell’individuare le proprietà costanti ed essenziali degli oggetti. La distanza, il punto di osservazione, le condizioni della luce cambiano, eppure il cervello è in grado di annullare, per così dire, il cambiamento, isolando un oggetto. Allo stesso modo un’opera d’arte cerca di distillare sulla tela le qualità essenziali di una cosa. Una funzione cruciale dell’arte, così, può essere considerata come un’estensione della funzione propria del cervello, quella di acquisire la conoscenza del mondo. In effetti, fu proprio il tentativo di mimare le abilità percettive della mente a spingere i fondatori del cubismo, Pablo Picasso e Georges Braque, a eliminare il punto di osservazione o la distanza. Del resto, acquisire la conoscenza degli oggetti e dei fatti, registrandone le caratteristiche essenziali e costanti, è la funzione primordiale dell’arte. Limiti di memoria La seconda è la «legge dell’astrazione». Per astrazione intendo il processo grazie al quale il particolare è subordinato al generale: così ciò che viene rappresentato può essere applicato a molti particolari. Questa legge è intimamente connessa alla prima, in quanto l’astrazione è un passo cruciale dell’effettiva acquisizione della conoscenza. In assenza dell’astrazione il cervello sarebbe asservito al particolare. La capacità di astrarre, probabilmente, è imposta dai limiti della memoria, in quanto affranca la mente dalla necessità di ricordare ogni dettaglio. E’ come dire che l’arte astrae e, così facendo, palesa l’attività interna del cervello. Citando John Constable, «tutta la bellezza e la grandezza dell’arte si risolvono nella capacità di andare al di là delle singole forme, di superare le peculiarità di ogni sorta. Il pittore rende un’idea astratta più perfetta di qualsiasi originale». Come il cervello generi le astrazioni è tra le questioni centrali della neurobiologia cognitiva. Attraverso un processo sofisticato, che solo ora comincia a essere ricostruito sotto il profilo fisiologico, i neuroni sembrano in grado di riconoscere gli oggetti in maniera visivamente invariante, dopo una breve esposizione a visioni diverse e distinte. Anche l’artista realizza delle astrazioni con un processo che in qualche modo assomiglia ai processi fisiologici, ma questo va poi oltre, dato che l’idea astratta muta essa stessa in sintonia con l’evoluzione dell’artista. Picasso, quasi anticipando gli studi di «imaging» del cervello, osservava che «sarebbe molto interessante conservare in foto la metamorfosi di un quadro. Forse si riuscirebbe a scoprire il percorso seguito dal cervello nel materializzare un sogno». Questa possibilità, ora, è alla nostra portata. Le idee di Platone L’astrazione conduce ai concetti. Facciamo l’esempio del concetto di auto. In questo caso, è una sintesi di tutte le auto da noi viste ed è perciò suscettibile di essere continuamente modificato dall’accumularsi di nuove esperienze. Questi concetti - che definisco «concetti sintetici» - possono essere considerati come il riscontro cerebrale delle idee di Platone, ma con questa differenza: Platone pensava che le idee esistessero nella realtà e fossero accessibili solo attraverso un processo di pensiero, mentre io credo che siano parte dell’apparato mentale generato dal cervello. L’astrazione e il suo prodotto finale - la formazione dei concetti, che sono fattori-chiave di un sistema di acquisizione della conoscenza - esigono dall’individuo un prezzo molto alto. L’idea astratta, sintetizzata dal cervello a partire dalla molteplicità dei particolari, può portare a una profonda insoddisfazione, perché l’esperienza quotidiana è unicamente esperienza di particolari. Michelangelo lasciò tre quinti delle sue sculture incompiute, ma il suo, a differenza di quanto molti hanno pensato, non fu un abbandono affrettato, tant’è vero che negli ultimi 10 anni di vita lavorò alla Pietà Rondanini. In quel periodo fece alcuni disegni, donati a Tomaso de’ Cavalieri, che comprendono tre superbe crocifissioni (ora a Windsor), in cui la forza espressiva di Cristo nasce dal carattere essenziale, scevro di particolari, dell’opera. Lo spettatore ha un sentimento di pathos proprio in forza dell’assenza di dettagli: ciò fa pensare che l’artista non abbandonasse i lavori a metà, perché sovraccarico di commissioni o costretto a favorire, per mancanza di denaro, i committenti che lo pagavano meglio. Realtà incompiute Per spiegare le caratteristiche di queste opere, Giorgio Vasari afferma che «il tempo e la sublimità delle idee andavano al di là della portata del suo fare». Io metterei la cosa in modo diverso. Michelangelo, in realtà, realizzò l’insperabile, riportando in una singola opera o in una serie di sculture gli ideali di sintesi che si erano formati nel suo cervello. Indulgendo all’emozione e all’enfasi lirica, gli storici dell’arte hanno scritto che davanti a queste opere incompiute, proprio perché incompiute, lo spettatore può immaginare di portarle a compimento, dando così soddisfazione alle idee nutrite dal suo cervello. Si tratta, tuttavia, di una realtà che non differisce molto da quella delle opere compiute, dato che queste ultime dispongono, comunque, di una qualità di incalcolabile valore, vale a dire quella dell’ambiguità: è il tratto tipico di molte opere delle grande arte, le quali permettono a chi le guarda di interpretarle in un’infinità di modi che sono tutti egualmente validi. Nell’arte - dice Schopenhauer - «qualcosa, magari il tocco finale, deve essere trascurato per consentire all’immaginazione (dunque al cervello) di agire». L’arte è stata un rifugio della creatività anche per altri ideali insoddisfatti, creati dal cervello con il processo di astrazione. Petrarca ebbe un’appassionata storia d’amore con una donna, Laura, che fu in larga misura, anche se non del tutto, una creazione del suo cervello (gli incontri tra i due furono rarissimi e si è arrivati a mettere in dubbio l’esistenza stessa di Laura). Dante nutrì un amore, durato tutta la vita e mai realizzato, per Beatrice. Nessuna donna prese mai il posto della sua donna ideale, «la gloriosa donna de la mia mente», che il suo cervello aveva costruito con la figura di Beatrice. Allo stesso modo Richard Wagner, che, a quel che sembra non realizzò mai il suo ideale romantico, in una lettera a Liszt, scritta prima della composizione di «Tristano e Isotta», osservava: «Dato che nella mia vita non sono stato in grado di sperimentare la felicità dell’amore romantico, intendo creare il più grande dei monumenti al più bello dei sogni». Ma un sogno è, dopo tutto, una costruzione del cervello. Nel «Tristano e Isotta» l’impossibilità che gli individui riescano sempre a trovare, nelle loro passioni romantiche, le condizioni ideali costruite dal cervello è accentuato dal credo secondo cui un simile ideale può essere raggiunto solo nella morte: è un tema, questo, ricorrente nella letteratura d’amore. E’ qualcosa di non molto diverso da quanto affermò Thomas Mann, per il quale l’arte sarebbe il solo modo non doloroso di fare un’esperienza che la vita ci nega. Capacità e limiti Quel che cerco di dire è che, osservando le opere d’arte, si possono trarre interessanti conclusioni sul funzionamento del cervello, oltre che sulle sue capacità e sui suoi limiti. E questo fatto non è limitato all’arte visiva o alla scelta di alcuni pezzi letterari e musicali. Gli scienziati stanno compiendo progressi significativi nell’analizzare i processi neurobiologici del più complesso ed esaltante dei sentimenti, vale a dire l’amore romantico. Si studiano le aree cerebrali legate all’esperienza delle passioni romantiche o della condotta sessuale, misurando anche le attività dei neuroni e le concentrazioni degli ormoni. E’ così che si comincia ad avere una visione inedita della neurobiologia dell’amore. Ma altri indizi sul concetto d’amore prodotto dal cervello possono essere ottenuti dalla letteratura. Nonostante l’enorme varietà, sotto il profilo linguistico, dell’espressione e del contesto culturale, romanzi e racconti attestano come all’amore sia sempre sotteso un preciso concetto prodotto dal cervello, quello dell’amore in quanto unità: con questa formula mi riferisco al fortissimo desiderio degli amanti, al culmine della passione, di dissolvere ogni distanza e sostanza che si frapponga tra loro e di unirsi in un tutto indissolubile. Un’unione, questa, che è il tratto più manifesto della leggenda hindu dell’amore del dio Krisna per Rada, come è cantata nel «Gitagovinda» di Sri Jayadeva. Lo stesso si ritrova nella leggenda, araba e azera, di Majnun e Leila, descritta dal poeta arabo Umr’ul Qays e dal cantore azero Nizami, e, ancora, il medesimo principio emerge nel «Simposio» di Platone, nella poesia del maestro sufita Jalluldin Rumi e nella leggenda celtica di «Tristano e Isotta», soprattutto nell’interpretazione di Wagner, oltre che nell’opera di Dante. In tutti questi esempi si riscontra la spinta alla fusione con l’amato e - allo stesso tempo - la consapevolezza di come un’unione simile sia raggiungibile soltanto nell’aldilà. Da qui il tratto comune del desiderio di morte. Sondando le basi neurali delle pulsioni romantiche, così come dell’arte che la rappresenta, la ricerca può aiutarci a capire che cosa dia forma ai nostri concetti di amore e di bellezza. Questo obiettivo sarà raggiunto con la mappatura dell’organizzazione neurale, che fornisce alle opere d’arte, tutte diverse tra loro, un substrato comue. Mi auguro che il futuro campo di indagine della «neuroestetica» si occupi della base neurale della creatività e delle acquisizioni artistiche, prendendo le mosse dal processo elementare della percezione. Sono convinto che non possa esserci una soddisfacente teoria estetica che non poggi su basi neurobiologichee allo stesso modo ritengo che non possa esserci una piena conoscenza dell’organizzazione del cervello senza lo studio delle sue manifestazioni. Tutta l’attività umana è, in ultima analisi, un prodotto dell’organizzazione del cervello ed è soggetta alle sue leggi. Spero, perciò, che la neuroestetica possa ampliare il suo raggio d’azione, fino al punto di cimentarsi con altre questioni, come, tra le altre, il fondamento neurale delle credenze religiose e della relazione che corre tra moralità, diritto e funzioni cerebrali. Si tratta di problemi fondamentali, che si rivelano nell’aspirazione dell’uomo a comprendere se stesso, e a questi problemi potrà essere data risposta solo con la comprensione completa del funzionamento del cervello. Come l’arte, è un insieme di realtà che svolge un ruolo cruciale nella nostra vita ed è soggetto proprio a quel tipo di variabilità che è al centro della civiltà umana. Sarei davvero sorpreso se queste nuove conoscenze non modificassero radicalmente la visione che abbiamo di noi stessi e della società. Samir Zeki