Vanity Fair 4 giugno 2008, Gabriele Romagnoli, 4 giugno 2008
I vicini di Erba abitano anche qui. Vanity Fair 4 giugno 2008 finita che io ho venduto casa,Galila Huff no
I vicini di Erba abitano anche qui. Vanity Fair 4 giugno 2008 finita che io ho venduto casa,Galila Huff no. Credo di vivere adesso molto più serenamente di lei, anche se ho pagato l’Ici per dieci anni e l’hanno abolita quando non avevo più niente da farmi tassare. Galila invece continua a pagare le spese di comproprietà del suo lussuoso palazzo a Manhattan e a temere la prossima mossa del nemico. Di che cosa sto parlando, e perché sono venuto a New York per raccontare questa storia? Diario di maggio: se permettete parliamo di guerra. Di una guerra quotidiana che non si svolge in Iraq (anche se tocca Libano e Israele), ma nel vostro (sono sicuro, anche nel vostro) condominio. Abitiamo tutti a Erba, sopra, sotto o di fianco ai paciosi coniugi Romano. Nell’estate del 2006 scrissi su queste pagine un breve articolo raccontando come, in mia assenza, il vicino mi avesse «assassinato» le piante chiudendo il rubinetto d’irrigazione sul terrazzo comune. E il vicino lavorava per un’associazione ambientalista. Da allora, spesso, qualcuno mi domanda: «Com’è poi finita la storia?». Alludendo a possibili reazioni, escalation capaci di trasformare una palazzina a due piani in una striscia di Gaza. Ve lo racconto qui, com’è finita. E come è finita con alcuni degli altri terribili vicini delle 23 residenze che ho avuto. Cominciando però con l’incredibile storia di Galila Huff, nonché del cortese avvocato Selbin e gentile signora. Ansonia, Las Vegas L’Ansonia è un palazzo tra i più famosi dell’Upper West Side. Ci hanno girato un film noir con Bridget Fonda (Inserzione pericolosa) dove l’edificio recitava da attore non protagonista. Ha tutte le regolamentazioni e le restrizioni dei co-op di Manhattan, dove acquisti non il tuo appartamento, ma una porzione del fabbricato, ed entri in un incubo burocratico. Devi votare per eleggere il consiglio, partecipare a referendum sulla moquette, se vuoi vendere casa l’acquirente deve ricevere l’approvazione generale. Ho passato un anno come inquilino in un inferno del genere. La qualità dei rapporti umani era questa: se salutavi un uomo in ascensore non ti rispondeva, se lo facevi con una donna ti citava per molestie, i cani salivano in cabina riservata (un condomino si era lamentato dopo essersi trovato peli sui pantaloni dello smoking). Prima di Halloween fecero circolare un questionario per sapere se accettavi che i bambini mascherati gridando «Scherzetto o dolcetto!». Alla porta di chi rifiutava era apposto un bollo nero. Al mio piano fui l’unico a non averlo. Vennero due bambini, spaventati. Avevo comprato sei sacchi di caramelle. Galila Huff, nata in Israele, si era trasferita a New York da giovane. Aveva fatto un po’ di soldi e li aveva investiti in due cose: un ristorante (La Fenice) e un appartamento non distante, all’Ansonia. Quarto piano, soggiorno, camera da letto, cucina, bagno. Al mercato attuale, valore intorno al milione di dollari. Divideva lo spazio con Bobo, il suo chihuahua, al quale insiste a far indossare T-shirt colorate create su misura. A 57 anni era soddisfatta della piega presa dalla sua esistenza. Piuttosto robusta, con due occhiali a 24 pollici dalla montatura colorata, aveva un solo vizio: il fumo. A catena: una sigaretta dopo l’altra. Un problema suo, aveva sempre pensato: di qualcosa si deve pur morire. Poi, un giorno della scorsa primavera, un poliziotto si è fatto annunciare dal portiere e le ha consegnato una citazione in tribunale. Causa civile, richiesta di ridurre le emissioni nocive provenienti dal suo appartamento e di non fumare più sul pianerottolo «ridotto come un casinò di Las Vegas». Firmatari: i suoi vicini di casa, gli avvocati Jonathan e Jenny Selbin, 40 anni entrambi, genitori del piccolo Charles, di 4 anni, «per la cui salute temevano grandemente a causa del fumo passivo». Che avere dei vicini sia un problema io l’ho capito fin da quando sono nato, a Bologna. Non è che abbia visto la luce all’Ansonia: la palazzina era modesta e periferica, sei appartamenti circondati da un piccolo cortile di ghiaia. Unico bambino in tutto il palazzo, scendevo a giocare con un pallone e molta fantasia. I palazzi intorno erano una festa: nel cortile di ciascuno giocavano frotte di ragazzini. Perché non mi univo a loro? Certo, ero timido, ma non fino al punto di isolarmi così. che abitavo sotto il Maresciallo. Si trattava di un maresciallo dei carabinieri in pensione, che aveva svolto una onorata carriera e ora aveva deciso di riposare. Il suo riposo era sacro. Il Maresciallo non voleva alcun rumore a disturbarlo, mai. Si era fatto eleggere capo condominio e aveva imposto un regolamento che impediva a bambini non residenti nel palazzo di giocare nel nostro cortile. Quindi non potevo invitare nessuno. Il problema fu che nei palazzi accanto, per ripicca, mutuarono dal diritto internazionale la clausola di reciprocità e vietarono il mio accesso. Altrove si svolgevano infuocate partite 5 contro 5. Io giocavo da solo, in silenzio, tenendo la palla bassa sui ciotoli, immaginando un campionato che non c’era, giocatori fantasma che alla fine del match fantasma intervistavo per una Tv fantasma. Dice: «Ecco perché hai finito per scrivere». Dico: «L’alternativa era diventare terrorista e far saltare tutti i marescialli». E comunque, se avessi detto a mio padre di far causa al Maresciallo, con tutto l’affetto, non mi avrebbe accontentato mai. La vendetta di Bobo Jonathan Selbin, invece, «per il bene di suo figlio» la causa l’aveva fatta. D’altronde è un avvocato specializzato in class action, di quelli che citano una multinazionale per danni a centinaia di consumatori, invocando rimborsi milionari. La moglie Jenny, avvocato pure lei. Meglio abitare vicino a un sospetto assassino, come mi è capitato poi a New York: è più sicuro. I Selbin dicono che non volevano pubblicità, anche se la storia è finita sulla prima pagina del New York Times e hanno aperto un blog per discutere la vicenda dal punto di vista legale e morale. Abitano in un mega appartamento di tre camere, salone doppio, tre bagni e cucina (valore due milioni di dollari e fischia). Secondo loro, l’odore del fumo di Galila passava anche attraverso le pareti. Lei ha un bel mostrare aeratori sparsi e salsicce di stoffa messe davanti a tutti gli usci. Selbin ha preteso le ricevute d’acquisto dei primi (senza ottenerle), la posa permanente dei secondi (idem). diventata una guerra di religione. La New York libertaria degli anni Ottanta contro la Tolleranza Zero dei Novanta. Tradizioni di civiltà sono andate in fumo. Galila ha cercato di uscirne mandando una raccomandata: proponeva ai Selbin di acquistare il suo appartamento a prezzo di mercato. Risposta: «Abbiamo già tre camere e tre bagni, quattro non ci servono». Allora ha perso la pazienza, così sostengono. Ha atteso la vicina al varco dell’ascensore e le ha soffiato una nuvola bianca in faccia dicendole: «Tié, Miss America». Il passeggino di Charles (che se ne farà a 4 anni?), che i Selbin lasciavano fuori dalla porta, è stato trovato bagnato di liquido giallasstro. «Pipì!», ha urlato il piccolo. «Di quel mostro!», ha aggiunto la madre. Intendendo Bobo, il temibile chihuahua vendicatore. Così va la vita di condominio: fuori da lì i Selbin presentano istanze alla Corte Suprema, «permetta Vostro Onore un richiamo ai principi che la nostra Costituzione ha fissato per l’armoniosa convivenza in questo Paese», Galila riceve i clienti con gentilezza e ne accoglie di buon grado le richieste, «certo che possiamo aggiungere un pizzico di sale nella salsa se è di suo gradimento», poi tornano a casa e cadono preda delle ossessioni reciproche, aprono la porta della mente a deliri così infimi da risultare immensi, creano associazioni a delinquere con i cani, invocano la legge di natura e quella divina a protezione di uno zerbino. Non sai mai chi ti capita. George, per dire. Era il mio vicino nel primo palazzo dove ho vissuto a Beirut, parte cristiana della città. Soave e insospettabile, benché avesse il monolocale gremito di animaletti di peluche. Ogni tanto veniva a far visita, molto discretamente. Diceva: «Il tuo appartamento non mi piace... lo adoooro!». Dal mio appartamento cominciarono a sparire cose: soldi, agende, biglietti aerei, macchine fotografiche. Decisi di cambiare la serratura: il fabbro me lo consigliò George. Le sparizioni aumentarono. Mi venne il sospetto. Chiamai la polizia. Interrogarono George. Venne fuori che si chiamava Tariq, ma voleva mimetizzarsi nel quartiere. Poiché il contratto scadeva, cambiai casa, cedendo quella al barista di fiducia. Pochi giorni dopo, rientrando fuori orario, trovò Goerge-Tariq che frugava in camera sua. Chiamò il proprietario del palazzo. Quello sfrattò George-Tariq. Il giorno dopo averlo fatto, ricevette la visita di due tizi armati. Erano le guardie del corpo di un ministro. Spiegarono al proprietario che Tariq era amico loro e non voleva traslocare. Il proprietario fu comprensivo. Io ritirai la denuncia. Il barista mi offrì da bere. La sveglia di Gaza Dal Libano a Israele. Galila ha deciso di tornarci anzitempo. L’ha garantito ai Selbin ma quelli, figurarsi, non ci hanno creduto e hanno mandato avanti la causa. Sul blog Jonathan insisteva: «Lo faccio per la salute di mio figlio». Qualcuno gli ha giustamente obiettato: «Se ti preoccupa tanto, perché non lo porti a vivere in campagna, anziché a New York? Mi sa che per strada è peggio che sul tuo pianerottolo». Niente. Galila era pronta a far le valigie, vendersi anche il ristorante, quando è entrata in scena un’azienda produttrice di filtri e si è offerta, gratis (ma con tanta pubblicità) di intervenire per assorbire tutto il fumo da casa sua e dalle parti comuni dell’Ansonia. finita così. O quasi. Il seme della discordia è rimasto piantato nella moquette condominiale. Galila e «Miss America» si guardano in cagnesco. Bobo e l’avvocato Selbin, va da sé. Charles cresce in un mondo pieno di contrasti, manco fosse figlio di un palestinese a Gaza. Galila vuol tornare ugualmente in Israele il più in fretta possibile. Provo a dirle che la sua vicenda è una metafora dell’incapacità di convivere tra popoli confinanti, che chi è arrivato prima non ha tutti i diritti e chi è arrivato dopo non dispone di tutte le protezioni, ma è un tasto difficile. Alla fine mi arrendo. L’ho fatto anche con i miei vicini romani. Dopo le piante è stato un piccolo, irritante inferno quotidiano. apparsa una passerella stabile sul lucernario, a togliermi un terzo della luce, una lastra di eternit che copriva precariamente la loro veranda è precipitata sulla mia bicicletta e, «capita», si è rotta una tubatura sovrastante allagandomi la casa, ma mi è stato negato per settimane l’accesso per verificare e riparare, intanto piazzavo catini. Ogni tanto ricevevo raccomandate con ricevuta di ritorno, dal piano di sopra. O lettere schizofreniche: due fogli, uno formale che mi ingiungeva qualcosa dandomi del «lei», uno informale che proponeva agevoli soluzioni dandomi del «tu». Alla fine ho deciso che non c’era bisogno di una Terra Promessa perché me ne andassi. Ho venduto casa e saluti. Confesso: prima di uscire ho piazzato accanto alla presa di aerazione che sbucava al piano di sopra la sveglia col muezzin, un congegno comprato ad Amman che richiama alla preghiera ininterrottamente, finché muoiono le batterie o la fede. Poi mi sono chiuso la porta alle spalle. Gabriele Romagnoli