Massimo Gramellini, La Stampa 27/5/2008, 27 maggio 2008
La parola vergogna La Stampa, martedì 27 maggio Nella patria dei senza vergogna avere un figlio gay è ancora considerata una vergogna
La parola vergogna La Stampa, martedì 27 maggio Nella patria dei senza vergogna avere un figlio gay è ancora considerata una vergogna. Certo, non tutti i padri reagiscono come il pregiudicato palermitano che ha preso a coltellate il pargolo sotto la doccia, ferendolo lievemente e ricevendone in cambio la più atroce delle vendette: una lunga serie di interviste televisive in cui il sangue del suo sangue ha rivelato alla nazione le proprie inclinazioni sessuali. Ma se la cronaca nera ha la funzione di portare a galla gli umori che proliferano nello stomaco di una società, non c’è dubbio che il figlio gay continui a essere percepito anche da tanti genitori «evoluti» come un disonore. L’identità di sesso amplifica l’imbarazzo. Un padre sarà più intransigente verso il maschio e una madre verso la femmina: la sedicenne di Pesaro che a metà maggio confessò in famiglia la sua relazione con un’altra ragazza fu pugnalata dalla mamma. Appurato che il figlio gay rimane fonte di vergogna (non di pena come il figlio balordo o drogato: di vergogna), può essere interessante scoprire quali siano le situazioni di vita quotidiana che hanno smesso di suscitarne. Dire le parolacce (il vocabolario scurrile è stato legittimato drammaticamente dalla tv). Essere ignoranti («Se avessi studiato, adesso non sarei certo dove sono», mi ha detto un ventenne intrallazzone di Verona, affacciato al finestrino della sua fuoriserie). Piangere miseria (ai tempi di quella vera, pur di nasconderla al vicinato c’era chi metteva a bollire in pentola dei sassi o mandava i figli a scuola con una pagnotta tagliata in due per far credere che dentro ci fosse il companatico). Non pagare le tasse (la lettera bordata di rosso che il Fisco spediva agli evasori veniva fatta sparire rapidamente dalla buca, mentre oggi eludere la tassa dei rifiuti e il canone Rai è quasi motivo per un’ola condominiale). Utilizzare i beni pubblici come proprietà privata (ricordo le lacrime che da bambino mi fece piangere mio padre, impiegato di un ministero, quando si rifiutò di lasciarmi portare a scuola una biro del suo ufficio, dicendo «appartiene allo Stato»; adesso lo rinchiuderebbero in manicomio, povero papà). Buttare la plastica nel cassonetto della verdura o viceversa (qui veramente manca il confronto con il passato e in alcune zone manca anche il cassonetto). Poiché l’essere umano prova vergogna solo per le cose che provocano una disapprovazione collettiva, dobbiamo forse dedurne che la comunità non trova più disdicevole che io dica le parolacce, ostenti con orgoglio la mia ignoranza, dribbli tutte le tasse possibili e cerchi di fare i miei comodi avendo l’unica avvertenza di non farmi beccare? La risposta è un gigantesco sì. Il vicino di casa non mi farà mai gli occhiacci per i miei comportamenti antisociali, ma solo per questioni che attengono la superficie bigotta della mia dimensione intima e familiare. Perciò un figlio gay è un disonore da nascondere, mentre uno che frega lo Stato può essere tranquillamente esibito sul pianerottolo. Per la gioia di mamma e papà. Massimo Gramellini