RENATO CAPRILE, la Repubblica 27/5/2008, pagina 40., 27 maggio 2008
Grecia, né aiuti né assistenza pugno duro con i clandestini Patrasso. «Qui - è peggio dell´Africa»
Grecia, né aiuti né assistenza pugno duro con i clandestini Patrasso. «Qui - è peggio dell´Africa». Fa specie che a dirlo sia uno, Ibrahim, che non sa niente dell´Africa. Un povero pastore afgano del nord, un azara. Da sempre discriminato in patria rispetto a un pashtun o a un tagiko, costretto fin dalla nascita al peggio e alla guerra, ma che ora, qui in Grecia, si sente ridotto a «uno zero assoluto». Uno che a nemmeno trent´anni è già arrivato al capolinea della vita. Senza più alcun diritto se non quello di morire. E pensare che per raggiungere l´Europa s´è venduto casa, pecore e quel poco di terra che gli aveva lasciato il padre. Seimila euro in tutto, in gran parte serviti per pagarsi il «viaggio». Viaggio è però una parola che non rende, quasi un´offesa allo strazio che l´ha portato - nascosto nel cassone di un camion quando non addirittura nel baule di un´auto - attraverso migliaia di chilometri prima in Pakistan, poi in Iran, quindi in Turchia, infine su un´isoletta greca di cui nemmeno sa il nome e da dove su una barchetta, insieme ad altri come lui, pigiati come sardine, è poi approdato a Patrasso. E qui, fine della corsa e fine del sogno. Anzi, fine di tutto perché i greci non scherzano con i clandestini. Niente centri d´accoglienza e poche chiacchiare se sia giusto o sbagliato trattarli così. Solo indifferenza e fastidio per un problema senza soluzione. Impossibile, infatti, rimandarli indietro. Così come impossibile, a causa del patto che lega la Grecia agli altri partner europei, fingere di non vedere. Chiudere, insomma un occhio e lasciarli liberi di arrivare a Roma, Amburgo, Madrid o Stoccolma che sia. In attesa di non si sa cosa bisogna pur stoccarli da qualche parte perché non facciano danni e soprattutto non turbino l´ordine pubblico. Su una delle tante isole dell´arcipelago o qui non lontano dal porto di Patrasso, che dopo Atene e Salonicco è per grandezza la terza città del paese. In uno spazio aperto che non si può nemmeno definire carcere, perché in carcere quantomeno ti danno da mangiare, ma dal quale non si può uscire e dove tutti i giorni sei costretto a stringerti un poco di più per far posto ad altri disgraziati come te. Un inferno, insomma. Un inferno fuor di metafora. «Era assai meglio se ci sparavano addosso», taglia corto Ibrahim in un mix di rabbia e di sconforto totale. Difficile dargli torto, non resta che abbassare gli occhi e tacere. Il «campo» non ha nemmeno un nome. E´ una brulla radura al centro di un parco non distante dal lungomare «Iroon Politechnion». Basta entrarci, anche solo per un attimo, rendersi conto dell´infinito squallore mentre centinaia di occhi ti scrutano smarriti, per pensare che in uno zoo si sta meglio. Che qualunque cosa è preferibile a questa fogna a cielo aperto dove nessuno fa più caso alla puzza, alla promiscuità e agli insetti. Qualcosa di indegno per un essere umano e che stride ancor di più perché non lontano da qui la vita scorre normale. C´è gente che passeggia per strada, coppie che sorridono sedute al bar davanti a una bibita e altri che giocano a tennis o calcetto nei circoli d´intorno. Indifferenti anche loro, come tutti del resto. Il «campo» non lo si può nemmeno definire una favela perché le baracche, meglio le cucce, in cui dormono per terra in quindici, venti o più hanno muri di cartone che un temporale può spazzare via da un momento all´altro. E sono un forno d´estate e un frigorifero d´inverno. Di servizi igienici nemmeno a parlarne. I mille e più prigionieri di questo lager per i loro bisogni si devono «appartare» all´ombra di qualche albero. Per lavarsi c´è una pompa, pietosamente messa a disposizione da un´ong, o il mare per quei pochi che di notte riescono a raggiungerlo. Gli afgani qui sono maggioranza assoluta. La gran parte adolescenti: 15, 16, 18 anni al massimo. Azara per lo più, l´etnia perdente, quella dei lavori più umili al tempo del talebani. Fuggiti da un paese senza speranza e finiti qua giù dopo essersi spogliati di tutto. Fino a diecimila euro hanno pagato a mercanti di uomini per avere la chance di un lavoro quale che fosse, la possibilità di raggiungere un parente che ce l´«aveva fatta» in Italia, Francia, Spagna, Germania o Svezia cui chiedere aiuto. Non parlano, fingono di non capire anche se ci si rivolge con qualche frase di cortesia nella loro lingua. Non si fidano di nessuno, hanno paura e guardano Ibrahim che è il più vecchio del gruppo e il leader di questa umanità allo sbando, perché li tolga d´impaccio. «Noi non siamo ladri, non vendiamo droga, eppure il solo fatto che siamo afgani fa sì che ogni tanto arrivi la polizia, frughi tra le nostre povere cose e poi per dare un senso a queste irruzioni si porti via qualcuno. Così, senza ragione». Sarebbero già morti di fame se qualche organizzazione caritatevole, privata sia chiaro, non portasse loro ogni tanto un pugno di riso. Fuori c´è poca polizia. Qualche auto a debita distanza, una decina di agenti apparentemente non interessati a quanto succede nel campo. C´è anche un´autoambulanza e poi più nulla. Per povera, stremata che sia, per trafficanti senza scrupoli questa umanità continua a rappresentare un business. Se cerchi qualcuno che sia disposto a tutto pur di venire fuori da quella Cayenna è lì che deve andare. Se vuoi mettere le mani sul danaro di quei pochi che ancora ne hanno, basta che arrivi qui di notte e offri loro passaggio a bordo di un mezzo qualunque alla volta di chissà dove. Ma può capitare, e capita sempre più spesso, che il viaggio finisca cento metri più avanti. I greci hanno risolto alla loro maniera il problema immigrati. In un cocktail di pugno duro e tolleranza interessata. E forse non è un caso che per questa povera gente abbiano coniato un´espressione che la dice lunga: «Ekonomikos menastes», emigranti economici. Braccia che servono a irrobustire il pil, a fare in altre parole quei lavori che anche qui nessuno vuole più fare - in agricoltura e nell´edilizia soprattutto - a patto che se ne stiano buoni, che siano invisibili. Sarà per le leggi più dure, sarà per altro ma in Grecia non c´è alcun allarme sociale attribuibile agli immigrati. Eppure negli ultimi vent´anni ne sono arrivati a centinaia di migliaia. «E anche se non ci sono cifre ufficiali - sostiene Theodoros Benakis, managing director dell´Imn (International media network) che pubblica settimanali in almeno sette lingue, quelle delle comunità più numerose che lavorano in Grecia - non si è lontani dalla verità sostenendo che siamo oltre il milione di presenze. Sono tentato di azzardare anche un milione e mezzo». Più del dieci per cento, dunque, del totale degli abitanti del paese. Gli albanesi sono la maggioranza, oltre il 50 per cento di quel milione e passa. La loro immigrazione è storia vecchia. Risale agli inizi degli anni Novanta, al collasso del comunismo e all´esodo di massa che travolse anche l´Italia. Arrivavano attraverso la frontiera, qualcuno passava e quel altro no. I meno fortunati erano subito ricacciati indietro senza tanti complimenti. Ma ci riprovavano poco dopo. Nemmeno le leggi per rigide che siano possono fermare chi ha fame. E dagli e ridagli alla fine la maggior parte di loro ce l´ha fatta, si è integrata, ha trovato lavoro, ha messo su famiglia ed ha perfino ottenuto la nazionalità. Cosa non facile per tutti gli altri. Anche quando, infatti, ci sono i requisiti per mettersi in regola, ci si arrende di fronte all´ultimo ostacolo: la burocrazia. Moduli da riempire, giornate di lavoro perso, per poi sentirsi dire se non si è disposti ad aprire il portafogli, che manca ancora qualcosa, che c´è bisogno di un ulteriore documento. Tutta roba che però non riguarda i paria del campo senza nome di Patrasso. Loro non servono, sono un problema. Che, come dice Ibrahim, non ha che due soluzioni: rubare o morire. RENATO CAPRILE