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 2008  maggio 26 Lunedì calendario

SONO TRE ARTICOLI


DAL NOSTRO INVIATO
BEIRUT – Con 118 voti su 127 il parlamento libanese ha infine eletto ieri il nuovo Presidente dello Stato. Nessuna sorpresa: è quello stesso comandante in capo dell’esercito, generale maronita Michel Suleiman, che era stato già designato 6 mesi fa e confermato ai colloqui di Doha negli ultimi giorni tra governo a maggioranza cristiano-sunnita e opposizione sciita sostenuta da Siria e Iran. Il Paese tira un sospiro di sollievo. Circa due settimane orsono la scelta di Hezbollah (la milizia sciita filo- iraniana) di mandare le proprie bande armate nel cuore di Beirut ad attaccare tra l’altro i media controllati dal leader sunnita Saad Hariri aveva causato oltre 70 morti nel Paese e generato il timore diffuso che si potesse ricadere nel vortice sanguinoso della guerra civile. «Oggi la nostra nazione inizia a risvegliarsi dall’incubo della propria autodistruzione », ha dichiarato tra gli applausi Suleiman, non esitando tuttavia a citare alcuni vecchi slogan della guerriglia sciita, come la «necessità di liberare la zona di Sheba dall’occupazione israeliana» e ringraziare Hezbollah per il suo ruolo militare. Il processo di pacificazione elaborato a Doha prevede ora che l’attuale premier, il sunnita Fouad Siniora, rimanga al suo posto per facilitare la formazione di un nuovo governo di unità nazionale, che si prevede possa essere condotto da Saad Hariri nel periodo di transizione in vista delle elezioni indette per la primavera 2009. Entrano subito in vigore gli accordi raggiunti con la mediazione dell’emiro del Qatar: l’opposizione controlla ora 11 ministri e ha diritto di veto su 16 dei filo-governativi. La nuova legge elettorale sembra tra l’altro possa favorire Hezbollah. E questi mantiene i propri arsenali, anche se promette di non utilizzarli «contro i libanesi » (promessa che comunque aveva già fatto agli accordi di Taif nel 1989).
I partner occidentali si augurano in ogni caso che ciò possa rappresentare davvero l’inizio della pacificazione interna e della regione. Tra i più ottimisti appare Franco Frattini. «Questo è un grande giorno per il Libano, si apre la speranza per la stabilità. E ciò deve basarsi sulla ricostituzione dell’esercito libanese, forte ed efficace, a garanzia del processo di consolidamento politico. Questa è la premessa per il disarmo di tutte le milizie, compreso l’Hezbollah», ha ripetuto più volte il ministro degli Esteri italiano incontrando Siniora, Suleiman e i massimi leader del Paese. A suo dire, solo il disarmo di Hezbollah potrà garantire la pace, «la sicurezza di Israele» e il ritorno della piena sovranità libanese. Ribadendo che, almeno per ora, i quasi 15.000 uomini di Unifil nel sud non verranno ridotti («è un discorso prematuro, dovremo prima vedere se l’esercito libanese crescerà»), Frattini ha voluto ringraziare il comandante italiano, generale Claudio Graziano, e lasciato capire di tracciare una differenza tra Hamas ed Hezbollah. Se infatti con l’organizzazione fondamentalista palestinese il dialogo resta tabù, con Hezbollah l’Italia oggi avrà rapporti regolari, «almeno con i suoi esponenti politici, che hanno firmato l’accordo di Doha e d’ora in poi dovranno gestirne l’applicazione assieme agli altri partner del governo».
Da Washington il presidente Bush fa buon viso a cattivo gioco. Preoccupato per questo che vede come un successo per l’Iran, invia a Beirut una delegazione di basso profilo assieme a un messaggio di felicitazioni a Suleiman. Raggianti appaiono invece i ministri degli Esteri siriano ed iraniano, che augurano al neo-presidente «un mare di sostegni».
Lorenzo Cremonesi

WASHINGTON – Per l’ex sottosegretario alla Difesa e leader neocon Richard Perle, legittimare Hezbollah come forza politica è «una vera bancarotta morale e pratica». Significa, protesta, legittimare anche la sponsorizzazione del terrorismo da parte dell’Iran. «Siamo in una situazione incredibile», afferma. «Hezbollah è un gruppo terroristico un organo del governo iraniano. L’Iran lo ha inserito con la violenza nel governo libanese, che ha ceduto per paura di violenze ancora più gravi».
Accettandolo come interlocutore, ammonisce Perle, si sancisce un modello: «L’Iran farà il bis in altri Paesi del Golfo persico e del Medio oriente a danno dell’America e dell’Europa».
Perché parla di bancarotta morale e pratica?
«Perché trattare con Hezbollah è come trattare con gli ayatollah e con la Guardia rivoluzionaria iraniani. L’Italia e la Francia sono in contraddizione con se stesse perché seguono una linea dura verso l’Iran e una linea morbida verso il suo protetto. Credono davvero che Hezbollah contribuirà alla stabilità del Libano a lungo termine? Non capiscono che danno via libera a qualsiasi governo di interferire in un altro? Che utilità ha per l’Europa chiudere gli occhi?».
 certo che l’Iran applicherà il modello Libano ad altri Paesi?
«Sì, lo sta già facendo in Palestina con Hamas, proprio tramite Hezbollah, armandolo e finanziandolo, e cerca di farlo anche in Iraq tramite le milizie sciite. L’Iran è abilissimo nello sfruttare il conflitto sciiti-sunniti per espandere la sua sfera d’influenza e creare delle repubbliche islamiche sotto il suo controllo».
Ma in Libano non c’erano alternative, sarebbe stata guerra civile.
«L’alternativa c’era e c’è, ed era ed è di isolare Hezbollah, l’Iran e la Siria che fa da sua cinghia di trasmissione. Hezbollah non ha a cuore l’interesse del popolo libanese ma quello dell’Iran, manca di legittimazione interna. L’Europa non deve dialogare con esso, deve fare fronte comune con l’America. Idem nei confronti della Siria, che secondo me è sempre pronta a istigare la violenza in Libano».
Ennio Caretto

O
nore a Michel Suleiman, nuovo presidente della Repubblica libanese.
Onore al generale che tutti volevano capo dello Stato, ma che ha dovuto attendere sei mesi prima della nomina, avvenuta ieri con un voto quasi unanime. Pioggia di elogi planetari sul tranquillo 59enne che ha sempre saputo coniugare la divisa con la diplomazia.
Probabilmente mai, nella giovane storia del Paese, un presidente, che per prassi costituzionale deve essere un cristiano-maronita, aveva saputo calamitare tanto consenso, quasi da diventarne un sinonimo.
Gode infatti del sostegno di Washington, dell’Ue, della Lega araba, piace alla Siria e ad Hezbollah, non dispiace a Israele, ma soprattutto incarna quella volontà di «riconciliazione nazionale», alla quale si è riferito, nel suo messaggio augurale, il presidente Bush. L’urgenza di chiudere la crisi che rischiava di trascinare il Libano nell’abisso di un’altra guerra civile è stato più forte e decisivo dei dubbi sollevati dal quadro politico che ha prodotto, in circostante drammatiche, l’elezione del generale. logico domandarsi se l’aver colmato il vuoto istituzionale basterà a ricomporre le divisioni del Paese.
Realisticamente, si può dire che l’uomo del consenso, al di là delle sue indubbie qualità, è stato scelto in virtù di un compromesso che riduce ulteriormente la già carente sovranità del Paese. Accostare la nomina alla creazione di un governo di unità nazionale, dove l’opposizione dell’Hezbollah avrà diritto di veto su qualsiasi provvedimento, è un limite evidente a tutti.
Attendersi miracoli da Michel Suleiman è quindi assai poco saggio. In un Paese ad autonomia ridotta, l’etica e il senso del dovere di un leader che non vuole dispiacere a nessuno non sono garanzia di indipendenza. Colpisce, tuttavia, una delle prime dichiarazioni del neo-eletto: ha chiesto di avviare relazioni diplomatiche con la Siria, che alla cerimonia di insediamento aveva inviato il proprio ministro degli Esteri Walid Mouallem. Potrà far sorridere, ma tra i due Paesi non vi è il tradizionale scambio di ambasciatori, in quanto la Siria ha sempre sostenuto che non ce n’era bisogno. Le due Repubbliche sono legate indissolubilmente, e la volontà di Damasco (il «protettore») non poteva che essere identica a quella di Beirut (il «protetto»). In attesa della formazione del nuovo governo, è abbastanza evidente che il vero vincitore di questa delicata partita è il partito di dio, appunto l’Hezbollah, che ha ottenuto ciò che voleva, e soprattutto ha evitato ciò che non voleva: cioè disarmare le proprie milizie, come impone una risoluzione dell’Onu. Si parlerà, naturalmente, con i ministri dell’Hezbollah, ma è escluso ogni contatto con organizzazioni armate, come ha chiarito il ministro degli Esteri italiano Frattini.
Suleiman, durante l’ultima crisi che ha opposto maggioranza cristiano-sunnita filo-occidentale a minoranza sciita-cristiana filo-siriana, è rimasto neutrale. Decisione comprensibile, in una situazione esplosiva, ma anche preoccupante. Perché gli equilibri, seguendo la linea del «consenso neutrale», prima o poi rischiano di saltare. Persino la prassi costituzionale, con il presidente cristiano-maronita, il primo ministro sunnita e lo speaker del parlamento sciita, vacilla. Andava bene ai tempi di Chamoun e di Frangie, quando i cristiani erano la maggioranza della popolazione. Oggi, superati dagli sciiti, non lo sono più. una verità che deve far riflettere.
Antonio Suleiman