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 2008  maggio 24 Sabato calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 26 MAGGIO 2008

Palma o non Palma, quello conclusosi ieri è stato un Festival di Cannes in cui la rappresentanza italiana è stata apprezzata come non accadeva da anni. «Formidabile», ha scritto Le Monde di Gomorra, film che il regista Matteo Garrone ha tratto dall’omonimo bestseller di Roberto Saviano. «Il più grande regista del mondo», ha detto la rete francese Arte di Paolo Sorrentino, regista de Il divo, ritratto di Giulio Andreotti nei primi Novanta (quelli in cui guidò il suo ultimo governo, fu nominato senatore a vita, non riuscì ad essere eletto presidente della Repubblica, uscì indenne dai processi per associazione mafiosa e per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli ecc.). Critiche positive anche per Il resto della notte di Francesco Munzi e Sanguepazzo di Marco Tullio Giordana. Paolo Mereghetti: «Un cinema italiano finalmente adulto, autorevole, coraggioso». [1]

Gomorra è un’opera «magnifica e terribile in cinque storie: come i sei episodi di Paisà di Rossellini sull’Italia in guerra» (Lietta Tornabuoni). [2] Sandro Veronesi (il giorno dell’uscita nelle sale): «8½ , La dolce vita e Amarcord di Federico Fellini, Roma città aperta e Germania anno zero di Roberto Rossellini, Ladri di biciclette e Sciuscià di Vittorio De Sica, La ricotta e Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, La grande guerra di Mario Monicelli, Il sorpasso di Dino Risi. Cos’hanno in comune questi film italiani? Nulla, a parte il fatto d’essere unanimemente considerati dei capolavori. Ecco, io credo che da oggi a questa lista bisognerà aggiungere Gomorra». [3]

Per realizzare il film, Saviano e Garrone (40 anni a ottobre, già pluripremiato per L’imbalsamatore e Primo amore) hanno lavorato fianco a fianco. Lo scrittore: «Scrivevamo a casa di Matteo, con la scorta che mi accompagnava e mi veniva a riprendere, sotto pressione. Il mio ruolo è stato come quello di un poliziotto, attento al rispetto del testo, il problema più difficile era scegliere, togliere piuttosto che mettere». Garrone: «Gomorra parla della camorra, ma le esperienze che vivono i protagonisti sono proprie di tutto il sud del mondo». [4] E poi: «Non ho pensato alle belle inquadrature o al bel movimento di macchina. La materia del film suggeriva un linguaggio semplice, un po’ come quello dei reportage di guerra, volevo dare allo spettatore la sensazione di trovarsi lì, in quei posti, di sentire quegli odori». [5]

Con Il divo Sorrentino (38 anni sabato prossimo, già premiato per Le conseguenze dell’amore e L’amico di famiglia) «non solo sferra la più violenta accusa alla classe politica italiana vista dai tempi di Todo Modo, ma cambia le regole della rappresentazione di quella stessa classe». Fabio Ferzetti: «Siamo in una specie di ”quarta dimensione” dove la citazione di nomi, cognomi e soprannomi (lo Squalo, il Ciarra, il Limone, sua Sanità...) si mescola con effetto ”pulp” alla deformazione grottesca dei volti (lo stile del trucco sfiora Dick Tracy)». [6] Stenio Solinas: « un’allegoria, anche feroce, sul potere, la sua gestione e la sua mancanza, la solitudine che lo accompagna». [7] Sorrentino: «Non ho voluto farne un ritratto né simpatico né antipatico. Ambiguo sì. Andreotti è il maestro dei ”non so”, dei ”non ricordo”». [8]

Andreotti (interpretato da Toni Servillo, protagonista anche in Gomorra) ha definito il film «una mascalzonata». Tullio Kezich: «Se è vero che cominciare con quella serie di ammazzamenti da mettere in conto a un ”Grande vecchio” presto identificato è alquanto proditorio (e aggiungiamo pure qualche ulteriore grossolanità polemica), è altrettanto vero che in capo a un paio d’ore la veemenza dell’accusa si è dissolta nella contemplazione di una personalità fondente lucidità, umorismo e astuzia nel crogiolo dell’intelligenza. Per cui mi consenta di osservare che stavolta lei ha sbagliato la mossa. Non doveva cadere nella trappola di assistere al film in compagnia di abili giornalisti interessati a cavarne uno scoop. Doveva fare come Fellini, che quando gli chiedevano come giudicava l’ultimo dei tanti libelli usciti su di lui rispondeva: ”Me ne hanno parlato, lo leggerò...”». [9]

Il resto della notte di Francesco Munzi (39 anni a settembre, già regista di Saimir), unico film italiano selezionato per la Quinzaine des réalisateurs (accolto da applausi convinti), ha offerto «un altro sguardo lucido e sofferto sull’Italia di oggi, sulle sue paure e sofferenze e solitudini». Ambientato nelle ”periferie” di Torino, quella ricca delle ville isolate e borghesi e quella poverissima delle case di ringhiera e degli insediamenti abusivi, racconta di una giovane domestica rumena cacciata con l’accusa di aver rubato degli orecchini, di un suo connazionale dedito ad attività illegali, di un complice italiano tossicodipendente, di una rapina ecc. Mereghetti: «Quello che interessa a Munzi è mostrare le tante facce di una società dove i ricchi sono solo spaventati e i poveri solo umiliati e dove l’autodistruzione sembra l’unica fine possibile». [10]

«Io non faccio morale, mi tengo a distanza, inquadro i fattori umani, non mi identifico con nessuno ma capisco le ragioni di tutti», ha spiegato Munzi: «Un film a tre diversi piani di lettura, uno più pericoloso dell’altro: i romeni che rubano, italiani allo sbando con droga, borghesia bella addormentata. Mi chiedevo: non darò un’immagine troppo nera? Mi sono dato un limite, non mostrare né la violenza né la morbosità. Ma mentre ero sul set ecco la cronaca nera dei fatti coi romeni che hanno sconvolto l’opinione pubblica e poi hanno influito anche sul film perché a Torino hanno arrestato per una notte causa una omonimia Laura Vasiliu, la nostra attrice romena». [11] Sorrentino: «Il fatto che a Cannes ci siano tre film di questo tipo smentisce chi dice che il cinema italiano è morto. Semmai è morto il modo di fare cinema di quelli che dicono che il cinema è morto». [12]

Il quarto film italiano visto a Cannes (fuori concorso) è Sanguepazzo (scritto proprio così) di Marco Tullio Giordana (58 anni a ottobre, quello de La meglio gioventù), accolto dal pubblico «con 13 minuti di applausi». Giuseppina Manin: «Osvaldo Valenti e Luisa Ferida sono stati i divi sommi dei ”telefoni bianchi”. Lei specialista nei ruoli di donna perduta, rovinafamiglie, lui in quelli del guerriero esotico, del nobile corrotto. Il fascismo, che pur ufficialmente propugnava modelli ben più caserecci, li adorava. E anche il pubblico, in nome di una torbida trasgressione consona all’immaginario di un Paese bigotto, faceva la fila per i loro film. Confondendo vita e arte come in un romanzo di D’Annunzio o di Pitigrilli, i due si lasciarono sprofondare nel gorgo degli eventi, aderirono alla Repubblica di Salò, lui si arruolò nella X Mas, collaborò con Pietro Koch, il torturatore di Villa Trieste a Milano. Nonostante negassero ogni addebito, il 30 aprile 1945 furono fucilati dai partigiani». I due protagonisti sono stati interpretati da Luca Zingaretti e Monica Bellucci. [13]

Qualcuno ha dato a Giordana del ”revisionista”. Il regista: «Per molti anni nel nostro Paese la definizione di guerra civile fu usata solo dai fascisti, ma era il termine giusto per indicare quello che accadde fra il settembre ”43 e l’aprile ”45 e che poi continuò a succedere anche dopo. C’era metà del Paese contro l’altra metà. Una fase che non è stata metabolizzata, che non riusciamo ad archivare, ma se non ne parliamo, allora il dolore diventa interminabile e non si riuscirà mai a voltare pagina». E poi: «L’onda lunga del conformismo arriverà subito in televisione, siamo tornati alla monarchia, ai governi cortigiani, nel nostro Paese l’opposizione è stata eliminata. Ed è una sciagura, anche per i vincitori». [14]

Dei quattro film italiani invitati al 61º festival di Cannes, solo uno non ha avuto alcun sostegno economico dalla Rai. Natalia Aspesi: «Naturalmente è Il divo: un film sulla camorra passi, fa folklore, uno sui rumeni indigenti ma anche pericolosi pure, fa emergenza, l’esecuzione di una coppia di divi littori subito dopo la Liberazione, ottima, potrebbe far revisionismo. Ma rispolverare Giulio Andreotti e la sua oscurità, gli anni torbidi della Dc alla vigilia del suo crollo, tra pentiti di mafia e Tangentopoli, pare ancora pericoloso, o perlomeno inelegante». Sorrentino: «Quando mi presentavo, e non solo in Rai, parevano tutti molto interessati, poi leggevano il copione, mi facevano i complimenti, però dicevano no grazie, non ci sembra il caso». [15]

Come al solito, ci sono stati quelli che «i panni sporchi si lavano in casa». Un Roberto Pepe ha scritto alla Stampa: «Mi vien da piangere se vedo quei fatti, quella criminalità, pubblicizzati all’estero». [16] Massimo Gramellini: « curiosa questa tendenza a considerare i film alla stregua di dépliant turistici. Gli stranieri non scappano dal Belpaese perché gli italiani esportano la loro sporcizia al cinema. Semmai perché non riescono a smaltirla negli appositi cassonetti». [17] Maurizio Cabona: «Gomorra farà sapere a qualcuno in più, in Italia e fuori Italia, che certe sua parti sono quasi extraterritoriali: come in Colombia, in Albania, in Kosovo, in Thailandia. Del resto a Cannes confluiscono centinaia di film analoghi di altri Paesi». [18]

In mezzo a tanto entusiasmo, c’è stata anche qualche critica. Cabona: «La conferenza stampa ha rivelato una cosa che Gomorra si limita ad accennare: l’intelligenza di Marco Macor e Ciro Petrone, i ventenni che nel film sono gli insubordinati della camorra che hanno come mito Tony Montana, il bandito cubano di Al Pacino in Scarface di Brian De Palma. I personaggi di Marco e Ciro (si chiamano infatti come gli interpreti) sono esuberanti, ma limitati; invece gli interpreti, fuori scena, sono uno spettacolo a sé. Peccato che Garrone non abbia concesso loro di esprimersi di più. Avrebbe dato al suo film quel minimo di simpatia di cui lo spettatore sarebbe lieto mentre assiste a oltre due ore di squallori. E il realismo di Gomorra sarebbe stato anche maggiore: ci sono onesti antipatici e disonesti simpatici. E viceversa». [18] Secondo il regista Pasquale Squitieri Gomorra è «senza senso: solo ammazzamenti, nessun tentativo di vedere cosa c’è dietro». Quanto a Saviano, a Cannes con la scorta: «Una buffonata da attore di quarta: lo sappiamo tutti che quando la mafia vuole uccidere non c’è scorta che tenga». [19]