Tempi 22 maggio 2008, Emanuele Boffi, 22 maggio 2008
Why not Tonino? Tempi 22 maggio 2008 curioso notare che ancora nessun quotidiano abbia raccontato dei diversi incontri (a Roma e in Calabria) tra il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro e Antonio Saladino, l’imprenditore al centro dell’inchiesta Why not
Why not Tonino? Tempi 22 maggio 2008 curioso notare che ancora nessun quotidiano abbia raccontato dei diversi incontri (a Roma e in Calabria) tra il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro e Antonio Saladino, l’imprenditore al centro dell’inchiesta Why not. Eppure il nome di Di Pietro compare sull’agenda di Saladino, le cui copie circolano nella redazione di un grande settimanale della sinistra italiana. In esse sono annotati tre incontri: un primo avvenuto durante la prima campagna elettorale (2001) del leader del neonato partito dell’Italia dei valori. Di Pietro e Saladino si incontrarono all’aeroporto di Lamezia Terme e viaggiarono insieme fino all’hotel Capo Suvero di Gizzeria (Catanzaro). Si discuteva di politica e Di Pietro propose a Saladino un accordo di tipo elettorale. La cosa, però, non andò a buon fine e non se ne fece nulla. Un secondo contatto avvenne invece in occasione della campagna per le politiche del 2006, e i due si ritrovarono a Roma. Era presente all’incontro anche un aspirante candidato nelle liste di Di Pietro e il leader dell’Italia dei valori chiese di nuovo a Saladino se fosse interessato ad accordi di tipo politico. Ma, anche questa volta, la proposta non sortì effetti. Un terzo abboccamento avrebbe dovuto svolgersi invece nel marzo dell’anno scorso, quando già era scoppiato il caso Why not. Un intermediario, che lavorava nella segreteria di Nicola Mancino, si fece avanti con Saladino per cheidere un incontro. Ma fu lo stesso imprenditore a suggerire di rimandare a tempi migliori, anche per evitare imbarazzi all’onorevole Di Pietro. Prodi e Mastella, ma non l’ex pm Tuttavia questa serie di appuntamenti segnati sulle pagine dell’agenda paiono non interessare i cronisti e il perché è assolutamente comprensibile: è probabile che nessuno dei grandi organi di stampa si sia occupato di narrare dei contatti tra i due per la semplice ragione che nulla di particolare è accaduto. Saladino era un uomo d’affari che s’occupava di lavoro interinale e Di Pietro, politico da sempre attento ai problemi del Sud, è normale che abbia avuto a che fare con lui. La curiosità non sta dunque nella conoscenza tra i due, quanto nel fatto che, invece, su molti altri personaggi che sono entrati nella sfera professionale di Saladino siano state marchiate non meglio precisate ombre di ttraffici e affari illegali. Due nomi su tutti: Romano Prodi e Clemente Mastella. Il primo, mentre era presidente del Consiglio, fu tirato in ballo per una balzana storia di massoneria e con l’accusa di abuso d’ufficio. Il secondo, in carica come Guardasigilli, fu messo sotto torchio per i suoi rapporti con l’imprenditore con l’accusa di abuso d’ufficio, finanziamento illecito ai partiti, truffa all’Unione Europea e allo Stato italiano. La vicenda Why not non si è ancora conclusa, ma intanto molte cose sono cambiate da quando sui giornali si raccontava della "nuova Tangentopoli" e il pm Luigi De Magistris rilasciava interviste durante le sue vacanze parigine, preoccupato che l’avocazione dell’inchiesta avrebbe riportato in Italia periodi bui di pallottole e tritolo. L’inchiesta, poi, a De Magistris è stata tolta dal Csm (col consenso di tutti, come disse violando il segreto il vicepresidente Nicola Mancino) e la Procura generale di Catanzaro ha chiesto l’archiviazione della posizione dell’ex ministro della Giustizia e dell’ex premier. In diverse occasioni il Tribunale della libertà ha accusato di «fumosità» il quadro probatorio. Intanto, però, fiumi di inchiostro sono stati scritti sul "feroce Saladino", sui suoi "loschi" rapporti con politici e imprenditori, sul "comitato d’affari" guidato dall’imprenditore calabro ex presidente della Compagnia delle opere locale. Quando ormai la vicenda sembrava relegata nel dimenticatoio, ci ha pensato Marco Travaglio a riportarla all’attenzione dell’opinione pubblica con un articolo apparso sull’Espresso il 9 Maggio ("Nel segno di Saladino") scrivendo che, nei giorni in cui «l’Associazione nazionale magistrati ha allargato la sua giunta alle componenti di sinistra (...), resta da capire se il presidente, il riconfermato Simone Luerti, 45 anni, gip milanese affiliato ai Memores Domini di Cl con tanto di voto d’obbedienza, sia la persona più adatta per fronteggiare la prevedibile onda d’urto». Travaglio ha chiosato che «Luerti, noto come un ottimo giudice, non si è particolarmente distinto nella difesa di colleghi come Luigi De Magistris e Clementina Forleo, attaccati dalla politica e dunque dal Csm sotto il governo dell’Unione». E che, a quanto risulta dall’agenda stessa di Saladino, in data «25 ottobre 2006» ci sarebbe stato un incontro in via Arenula, sede del ministero, tra Luerti, Saladino e Mastella. Come ha scritto lo stesso Travaglio il fatto non è «nulla di grave, per carità», anche perché la Procura catanzarese avrebbe notificato a Saladino «l’avviso di garanzia per associazione a delinquere finalizzata alla truffa all’Ue» solo «tre mesi dopo». Le dimissioni di Luerti Ma tanto è bastato a Travaglio per instillare il dubbio che Luerti - che in un’intervista in gennaio all’Espresso aveva affermato di non vedere da tempo Saladino - non fosse la persona più adatta per guidare l’Anm e chiedere che spiegasse pubblicamente «che cosa facesse con lui (Saladino, ndr), quel giorno, nell’ufficio del ministro Mastella». Luerti, da par suo, ha chiarito la vicenda davanti ai colleghi dell’Anm, presentando poi le dimissioni per «senso di responsabilità verso l’intera magistratura e il desiderio di assoluta trasparenza» e per evitare «ulteriori strumentalizzazioni e possibili condizionamenti». Cosa sia accaduto quel giorno in via Arenula l’ha ben raccontato Repubblica svelando che i tre davvero si erano incontrati per caso. E che Saladino aveva parlato a Mastella di un progetto per il recupero dei carcerati, mentre Luerti - che all’epoca non era presidente dell’Anm - aveva chiesto al ministro di prendere parte a un convegno di Unicost sulla separazione delle carriere e gli aveva esposto un progetto di riforma per una scuola sulle professioni forensi. Come ha scritto giustamente Travaglio, non accadde «nulla di grave». La conferma la dà a Tempi Clemente Mastella: «IO quasi non me lo ricordo nemmeno quell’incontro», dice. Rovistando tra i ricordi Mastella afferma che «comunque non fu nulla di particolare. Era mio compito di ministro parlare con i magistrati». La concomitanza della presenza di Saladino «fu del tutto casuale e non accadde nulla di significativo. Fu un incontro assolutamente innocente». Mastella non ha, naturalmente, un buon ricordo di quei mesi: «Era chiaro, volevano farmi fuori e dare il ministero della Giustizia a qualche loro amico, magari a Di Pietro». Poi Mastella, come è noto, per altre vicende, il posto lo dovette lasciare mesi dopo, facendo anche cadere il governo Prodi. Non lo può dire con certezza, però «come diceva Andreotti a pensar male si fa peccato, ma spesso s’indovina. Credo che sia lecito il sopetto che tra alcuni magistrati e alcuni giornalisti ci fossero rapporti che andavano ben al di là della sfera professionale. Per il resto non so, certo è che Di Pietro era sempre molto ben informato su tutto ciò che mi riguardava». La pastetta mediatico-giudiziaria D’altronde non è un mistero che tra il pm De Magistris e alcuni giornalisti ci fossero "affinità elettive" che consentivano a più un giornale uno scoop al giorno. Lo rivelò tempo fa il quotidiano Libero che giunse perfino a pubblicare intercettazioni telefoniche tra il pm e il cronista del Corriere della Sera Carlo Vulpio, lo stesso giornalista che firmò la celebre intervista parigina al pm sul quotidiano di via Solferino ("C’è una nuova Tangentopoli", 17 luglio 2007). Tra l’altro, almeno a stare alla ricostruzione del giornale di Vittorio Feltri, i rapporti tra il cronista e la redazione non erano idilliaci, e però è anche vero, come raccontano dal Corriere a Tempi, che Vulpio portava, ogni giorno, notizie fresche affibbiando terribili "buchi" alla concorrenza. «Certo che di buchi ne abbiamo fatti tanti - dice a Tempi Paolo Pollichieni, direttore di Calabria ora - la procura passava le informazioni solo a certi giornalisti selezionati». Pollichieni rivela che «anche a noi era stato chiesto di concordare il lavoro, ma non abbiamo accettato». Chi ha accettato, dice il direttore, è facile verificarlo: «Basta andare a vedere chi aveva "la" notizia il giorno dopo. I miei cronisti uscivano frustrati dal palazzo, mentre i loro colleghi se ne andavano dagli uffici col sorrisetto sulle labbra». In realtà, Pollichieni, una volta lo scoop lo fece: «Pubblicai con un giorno d’anticipo quali sarebbero state le perquisizioni che sarebbero avvenute il giorno dopo. Lo feci come gesto di provocazione perché mi interessava soprattutto mostrare a tutti che non si poteva continuare a portare avanti un’inchiesta con certi metodi e sempre con gli stessi referenti. E la cosa più assurda fu che, sebbene io avessi rivelato la cosa sulle pagine del giornale, poi le perquisizioni le fecero lo stesso». Il direttore di Calabria ora non ha particolari simpatie per Mastella «ma devo dire che anche leggendo le carte che uscivano dalla procura era facile intuire che nell’inchiesta ci fossero molte cose "strane". Per questo non mi sono sorpreso più di tanto che la vicenda dell’ex Guardasigilli sia stata archiviata». Il resto sono chiacchiere di paese, come quelle che riguarderebbero delle presunte cene al ristorante "Il Pirata" di Falerna (Cz) in cui un gruppo di giornalisti e i magistrati della procura si incontravano per concordare le strategie. Favole strapaesane, appunto, cui nemmeno Pollichieni vuole dare dichiarazioni di una teste. «La voce giunse pure a me e scrissi che mi auguravo che queste "cene piratesche" non fossero mai avvenute». Al di là dei pettegolezzi Pollichieni ci tiene a sottolineare che è stato assai balzano tutto il clamore su Why not, «in una zona dove la vera criminalità mafiosa fattura qualcosa come 35 miliardi e tiene in pugno quasi tutto». Emanuele Boffi