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 2008  maggio 21 Mercoledì calendario

Sudafrica. la Repubblica, mercoledì 21 maggio Johannesburg. Appena il sole cala sulla città, nella periferia est di Johannesburg le bande tornano in azione

Sudafrica. la Repubblica, mercoledì 21 maggio Johannesburg. Appena il sole cala sulla città, nella periferia est di Johannesburg le bande tornano in azione. Armati di sassi e bastoni, ma anche di pistole e machete, accendono falò nelle strade, appiccano il fuoco alle baracche, sparano in aria. E urlano sempre più forte: «Basta con gli stranieri, uccidiamoli, cacciamoli». Il loro obiettivo è la chiesa metodista. Da una settimana è diventato il rifugio di tremila mozambicani e di sfollati dello Zimbabwe. Le luci degli incendi nelle case e dei falò improvvisati per le strade punteggiano la periferia est della città. Colpi secchi di armi automatiche echeggiano tra i grattacieli vuoti e fatiscenti del centro. Le grandi compagnie finanziarie e minerarie li hanno abbandonati da tempo e adesso sono il regno delle bande dei nigeriani. Appena il sole piega a ovest e il buio cala su Johannesburg riprende la caccia allo straniero. Gruppi armati e ben organizzati sbucano dai vicoli di Alexandra, Germiston, Boksburg, le grandi baraccopoli che assediano i quartieri ricchi e opulenti. Si riprendono le piazze e gli incroci. Brandiscono machete, roncole, coltelli, bastoni. Afferrano sassi e mattoni lungo il percorso, lanciano slogan, cantano e saltano in una danza che rievoca spettri lontani nel tempo. Urlano sempre più forte: «Basta con gli stranieri», «cacciamoli», «uccidiamoli». Sono giovani, neri, forti, secchi come chiodi e decisi. Nel buio appaiono le prime pistole. Spuntano anche grandi fucili a pompa. Neri e argentati. Braccia alzate li agitano in aria. I gruppi s´infittiscono. Diventano sempre più grandi. Adesso saranno formati da cento, duecento persone. Si uniscono ad altri piccoli cortei che sbucano da ogni angolo, anfratto, portone, casa, negozio. Si riversano sul viale che attraversa il vecchio centro della città. I rari passanti fuggono, cercano rifugio nei portoni già chiusi e sprangati da grate di ferro. Questo fiume umano, carico di rabbia, assetato di sangue, imbottito di alcol e di droga, punta dritto verso la «Center methodist church», la chiesa metodista, una struttura in mattoni che svetta il suo crocefisso in ferro verso il cielo. Da una settimana è diventato il rifugio di tremila mozambicani e di sfollati dello Zimbabwe. Guardiamo in cima alla guglia: una decina di teste nere si affaccia dal muretto protettivo. Urlano qualcosa. Lanciano l´allarme. Hanno gli occhi sgranati, il viso teso. Brandiscono anche loro bastoni, pezzi di ferro, coltelli. Lanciano pietre, sassi e mattoni sull´asfalto. Una pioggia che colpisce auto, camion, bus, cornicioni, tende, le serrande chiuse e sprangate dei negozi. Parte l´attacco. Un muro umano si avventa sulla vetrata della chiesa. La polverizza. Le schegge rimbalzano ovunque, feriscono e trafiggono assediati e assalitori. Il cancello di ferro resiste, ondeggia sotto la pressione della gente. Quelli fuori colpiscono con furia selvaggia; quelli all´interno restituiscono i colpi. Sulle mani, sulle braccia, sui visi, sulle bocche spalancate che lanciano urla da animali feriti. Dal cielo continua a cadere di tutto. Sassi, mattoni e poi sedie, armadi, un´intera vasca da bagno che si sbriciola a terra. L´assalto viene respinto. Le sirene della polizia scatenano il panico. Si sente sparare. Proiettili di gomma, proiettili veri. La folla dei predatori si disperde. Fugge nei vicoli, nei giardini vicini, s´infila nei portoni chiusi fino a qual momento e adesso aperti da complici rimasti di guardia. Nel buio sempre più pesto, in un silenzio irreale, dominato dal terrore e dall´odore della polvere da sparo, resta solo un tappeto di detriti sul quale avanza a fatica il corteo di auto della polizia. Dietro le sbarre della chiesa c´è un muro di armadi, letti e materassi. Facce spaventate, ferite, gli occhi persi nel vuoto, spuntano tra le feritoie intrise di sangue. Parlano tutti. Urlano tutti. Spiegano, protestano, supplicano. I poliziotti si piazzano a cerchio, imbracciano fucili, pistole, torce, manganelli. Anche loro sono esausti, le facce tirate, gli occhi segnati da occhiaie scure, le divise logore, spruzzate da macchie che non sai se siano sangue o terra. A dieci metri, lungo lo stesso marciapiede, c´è un centro sanitario di Médicins sans frontières. E´ una delle pochissime ong presenti in questa improvvisa, imprevedibile e pericolosa rivolta. Bianca, una volontaria tedesca alla sua prima missione, non riesce a comporre un numero sul cellulare. Si stringe le mani, cerca di far passare un tremore incontrollabile. «E´ la terza volta in due giorni», sussurra. «Questi immigrati rischiano troppo. E´ impossibile continuare a tenerli dentro la chiesa». La radio di un poliziotto gracchia un allarme che non riusciamo ad afferrare. Francesco, la nostra guida italiana, da sempre in Sudafrica, ci scuote. «Andiamo», ordina con un grido che non ammette repliche. Ci infiliamo in macchina. Imbocchiamo un vicolo, poi un altro. «Tieni la testa bassa», avverte. «La zona è pericolosa». Facciamo una decina di chilometri, superiamo due incroci, una piazza dove bruciano dei copertoni. Le vetrine dei negozi, tutti gestiti da stranieri, mozambicani e zimbabwani soprattutto, hanno le vetrine infrante. Colpi di bastone e grossi buchi che ricordano i proiettili. Corriamo verso Jeppestown, un altro quartiere del vecchio centro. Qui, un tempo, sorgeva il cuore della city finanziaria. Banche, industrie, società, multinazionali. Oro, diamanti, miniere e grandi business. Adesso sono spariti tutti. Si sono trasferiti a Sandton, piccola oasi per ricchi che la violenza ha trasformato in ghetti d´oro. Di bianchi e di neri. Immensi quartieri circondati da alte mura, con filo spinato, barriere, dobermann e guardie armate. Il vecchio centro finanziario è in mano a bande organizzate. Armi in mano, hanno occupato i grattacieli, le case, le sedi delle banche, i grattacieli degli alberghi. I proprietari ci hanno rinunciato: nessuno paga e la polizia non è in grado di riprenderli. Qualcuno li usa come pubblicità. Li ha murati e sull´enorme facciata spiccano i cartelloni. E´ un business che funziona. Chi li ha comprati a prezzi stracciati oggi guadagna cento volte di più. La strada verso Jeppestown è costellata di piccoli gruppi di persone. Uomini, donne, moltissimi bambini. Sostano sui marciapiedi, si stringono attorno a materassi, coperte, secchi, pentole, sedie, mobili: è tutto quello che sono riusciti a portare via nella fuga disperata verso la centrale della polizia. Ma sono i più fortunati. La grande massa, quattro mila persone, irregolari, clandestini, senza più una patria, un documento, un tetto, aggrappati solo ad un confuso istinto di sopravvivenza, sostano da due giorni nel grande cortile esterno del commissariato. Chiediamo di entrare. La polizia è preoccupata. Gira voce che le bande di sudafricani, zulu soprattutto, l´etnia maggioritaria dello stato di Johannesburg, si stiano dirigendo da queste parti. Gli elicotteri che volteggiano senza sosta segnalano assalti, incendi, saccheggi e violenze nella zona dell´Eastend, oggi chiamata Ekurhuleni. E´ il centro delle nuove baraccopoli. Tre chilometri in linea d´aria. Ieri mattina, nel sobborgo di Reiger park, la polizia è dovuta intervenire con i blindati e gli elicotteri per disperdere 400 immigrati armati di bastoni, coltelli e machete. Cercavano una vedetta, si stavano dirigendo verso le altre township da dove era scattato l´ultimo assalto. Il gruppo si è dato alla fuga ed è stato disperso, ma tra le baracche date alle fiamme si sono scoperti due cadaveri semicarbonizzati e cinque persone, ancora vive, ma con il viso scarnificato a colpi di coltello. Il presidente Tabo Mbeki si è indignato per «l´orrore e l´efferata violenza». Ha lanciato l´ennesimo appello: «Bisogna mettre fine a questa barbarie», ha detto in un messaggio particolarmente drammatico trasmesso alla radio. «E´ una vera vergogna. I cittadini di altri paesi del continente africano sono esseri umani e meritano di essere trattati con rispetto e dignità. Il Sudafrica non è un´isola separata dal resto del continente e la polizia risponderà nel modo necessario». L´opposizione e i sindacati tuonano. Pretendono l´intervento dell´esercito: «Gli appelli cadono nel vuoto, bisogna agire subito, prima che l´incendio si allarghi a tutto il paese». Il capo dello Stato resiste. Minaccia ma prende tempo. I Mondiali del 2010 sono alle porte, l´immagine del paese non può essere compromessa, il turismo rischia il tracollo. Mbeki fa parlare i suoi ministri. Quello dello sport, Barbara Creely, riferisce ciò che pensa il ministro della Sicurezza, Firoz Cachalia: «Dietro questa protesta c´è una terza forza che abbiamo individuato in modo chiaro». Creely non lo dice. Ma cresce il sospetto che la rivolta sia stata ispirata da un settore del florido commercio sudafricano. Qualcuno nota che le comunità cinese, pachistana e indiana, da sempre egemoni nel settore, non hanno subito alcun danno. «Sono stati avvertiti prima», sostiene un poliziotto che rimane anonimo, «hanno chiuso i negozi e da una settimana sono rintanati in casa». Le vetrine infrante, i saccheggi, gli assalti, gli incendi, hanno colpito soprattutto i negozi popolari, quelli che forniscono merce di seconda mano e a prezzi contenuti». La grande criminalità ha fatto il resto. Ha approfittato della confusione per saccheggiare negozi e case. Il bilancio di questa guerra tra i dannati del Sudafrica è salito a 24 morti, 170 feriti, 297 arresti, 13 mila sfollati. Nel paese ci sono almeno 5 milioni di clandestini, il 10 per cento dell´intera popolazione. Moltissimi sono fuggiti e hanno chiesto protezione alla polizia. Quattromila adesso vivono in questo campo improvvisato dentro il commissariato di Saps Jeppe. Hanno perso tutto. Vagano come un gregge allo sbando, minacciati dai manganelli dei poliziotti che cercano di mantenere un minimo di ordine. In fila, gli sguardi smarriti, attendono il turno per un panino. Sono liberi ma non hanno scelta. Fuori, per loro, è l´inferno. Fuggire per morire. Un ragazzo dello Zimbabwe dice di chiamarsi Moruane. «Necklace, necklace», ripete in modo quasi ossessivo. Francesco, la nostra guida, traduce: «Si chiama collare. Ricorda gli anni dell´apartheid. Ti prendono, ti legano o tagliano le mani, ti infilano due copertoni dalla testa, li cospargono di benzina e danno fuoco. All´epoca lo subivano, oggi lo rifanno agli altri». Daniele Mastrogiacomo