Vanity Fair 21 maggio 2008, Gabriele Romagnoli, 21 maggio 2008
Giochi proibiti. Vanity Fair 21 maggio 2008 Si spera che Gyatso arrivi puntuale all’appuntamento, ma non è detto: è uscito di prigione da poco
Giochi proibiti. Vanity Fair 21 maggio 2008 Si spera che Gyatso arrivi puntuale all’appuntamento, ma non è detto: è uscito di prigione da poco. D’altro canto è uno che corre veloce, quindi di solito arriva in tempo. Infatti eccolo, con una maglietta Adidas e un paio di calzoncini Calvin Klein, rigorosamente copie di copie. Adesso si può partire, dopo aver caricato sull’auto le armi: un paio di fucili ad aria compressa per le gare di tiro e la pistola dello starter. Questa carovana non va a fare la rivoluzione, va a fare le olimpiadi. Quelle tibetane. Non sono controolimpiadi, non sono contro niente e nessuno, sono semplicemente un’altra cosa, che accade in un posto diverso da Pechino, con regole diverse da quelle dei Giochi, con partecipanti che ai Giochi non potrebbero esporre la bandiera che adesso fanno sventolare dal finestrino mentre la vettura alza la polvere di Delhi e si avvia verso Dharamsala. Questa è la storia di un lungo viaggio, cominciato molto prima di iniziare, e al termine del quale non ci sono medaglie. Il Sacro Slum Arrivo a Delhi con 43 gradi e una cortina di smog in cielo. Porto dall’Italia barattoli di fermenti lattici e un’incurabile dissenteria morale. L’autista indiano ingaggia immediatamente un dialogo surreale. «Mi hanno detto che devi andare a Dharamsala». «Sì, lunedì». «Ah, vai prima a Lunedì poi a Dharamsala». «Perché, esiste un posto chiamato Lunedì?». «Non lo so, io sono nato a Dharamsala». «E mi ci porti tu?». «Quando?». «Lunedì». «Allora vai a Lunedì e poi a Dharamsala?». «Sì, buonanotte. Adesso andiamo al campo dei profughi tibetani, per favore». «Che cos’è?». A pagina 20 di Shantaram, il romanzo che Johnny Depp trasformerà in film, il protagonista sbarca in India e s’imbatte in un sorriso. «Qualcosa nella sua solarità, una sorta di scanzonata esuberanza, più sincera ed euforica rispetto a una semplice felicità» lo conquista. Ecco, se gli indiani non sorridessero così, gli occidentali di passaggio li avrebbero decimati in preda a crisi di nervi. Ci perdiamo, parcheggiamo in un posto da cui poi non riusciamo a uscire, ma ci siamo: un arco in cielo annuncia, se non casca prima, l’ingresso del campo. Non fossi stato a Sabra e Chatila potrei scrivere che è un agglomerato deprimente. Sono tristi gli slum, specie se infilati nelle città, costruiti con il cemento a coprire la terra. Grondano nostalgia tutti i ricoveri di esuli del pianeta. Ma uno slum di esuli incastrato nel traffico di una megalopoli, con dedali di vicoli scivolosi frequentati da cani magri, per chi aveva vissuto - o avrebbe potuto vivere - a un soffio dal cielo, immerso in una natura divina, è davvero una punizione. Il luogo dell’incontro è l’Internet Cafè di Tsenam, trent’anni, gestore del locale e preparatore atletico di sua moglie Yangchen e del suo amico Gyatso. Per arrivarci si attraversa una serie di strade-corridoio tappezzate di manifesti anti-cinesi, inviti a non far passare la torcia per il Tibet, esortazioni al boicottaggio. Nella bottega ci sono tre computer e un’apparecchiatura digitale che realizza foto per passaporto e mostra, come esempio, un’immagine di Tom Cruise. Tsenam indossa una maglietta che reca sulla schiena una massima del Dalai Lama sui paradossi della nostra epoca, quella che comincia dicendo: «Abbiamo case più grandi e famiglie più piccole». La lava ogni sera e mette ogni mattina, attraversa un periodo di ristrettezze perché ha prestato soldi a un amico e non li ha più rivisti, finanzia gli studi di un bambino non suo, ospita da sei mesi, vitto e alloggio, un’amica della moglie, eppure a pranzo insisterà per pagare di tasca sua birra e ravioli. Mentre mangiamo mi racconta che la sua lettura preferita sono i libretti d’istruzione per macchine fotografiche che non possiede: «In caso un giorno le avessi». Sa a memoria come far funzionare congegni sofisticati di apparecchiature fantasma che utilizza nell’aria come un mimo desiderante. La famiglia di sua moglie Yangchen vive in un’altra città dell’India, il padre è un insegnante di religione. Lei ha insistito per affittare, nel campo di Delhi, una casa con due stanze (costo 150 euro al mese), dedicando la seconda alla preghiera. Nella prima ci sono un lettino sotto la zanzariera, una televisione che si accende quando squilla un cellulare, un mobiletto con una collezione di smalti per unghie, poster di bambini, peluche da bambini e un fotomontaggio incorniciato in cui tra i due c’è Jennifer Lopez. «E questa chi è, una star indiana?», chiede Gyatso, l’ex recluso, rivelandosi l’ultimo esemplare «JLo free» della terra. In compenso lo ha molto emozionato aver incontrato nel labirinto sotto casa l’ex Miss Tibet. Gyatso ha 28 anni, è un corridore. Il suo massimo allenamento è stata la fuga dal Tibet: ha impiegato 24 giorni, marciando di notte, quando le guardie dormivano, e riposando di giorno, mentre loro vegliavano. Non ha una casa, vive dove lo ospitano. Per quattordici giorni e altrettante notti l’onore è toccato al carcere di Delhi dove, con altri 31, è stato trascinato dalla polizia per aver manifestato senza autorizzazione davanti all’ambasciata cinese. A Delhi vivono 5 mila tibetani, di cui duemila nel campo. Gyatso e Yangchen saranno i loro rappresentanti alle altre olimpiadi. I bagagli che preparano per la spedizione contengono, come tutta la loro vita, stracci e meraviglie: abiti dimessi e congegni elettronici sofisticati. Chiunque di loro può parlarti dell’ultima serie Nokia (e possiede la penultima). Paradosso da Dalai Lama: «Abbiamo mezzi di comunicazione più efficaci e meno parole da dirci». Yangchen si è allenata ogni mattina alle sei nel parco accanto al campo, Gyatso non ha smesso di fare ginnastica neppure in cella. Sono pronti. Si può partire. Dharamsala Express E si va, in una mattina rinfrescata da una notte di tempesta: tuoni e sabbia. Al volante, per fortuna, non c’è Lunedì. Gyatso è inscatolato tra i fucili e le valigie, Yangchen tra la bandiera e il mal d’auto che avrà tredici ore per torturarla lungo il percorso. E che percorso: annoto sette incidenti, camion coloratissimi che sembrano vagoni del treno per Darjeeling affossati sui cigli, cartelli stradali che invitano alla prudenza in rima baciata (traducendo verrebbe: «Non siate dementi, seguite i regolamenti»), lunotti d’auto che rispondono con la scritta: «Non temo la morte fisica, solo quella della coscienza». Scavalchiamo il Punjab, contagiato da una febbre immobiliare a base di condomini e centri commerciali, e finalmente la strada comincia a inerpicarsi verso la residenza del Dalai Lama. Anche l’impassibile Tsenam si eccita: in vita sua ci è stato una volta sola, per due ore, ha baciato la terra ed è tornato a Delhi. Gli altri, neppure quello. Ci volevano queste olimpiadi per spingerli fin qui. Qui è un posto dove arriviamo di notte, con una dozzina di gradi in meno rispetto a Delhi, con le luminarie accese, la musica disco, i megaschermi degli hotel sintonizzati su Hbo e una congerie di negozietti che vendono libri, cartoline e souvenir del Dalai Lama. E, sì, anche qualche monaco che fa «Om», ma al cellulare. La natura è sontuosa, la fauna è meno affascinante, specialmente se hai raggiunto quello stadio nella vita in cui non ne puoi più dei rasta e delle orientaliste e vuoi la pace dello spirito, ma anche quella del colon. Sediamo nella piazza principale, in attesa di Lobsang, l’organizzatore dell’evento. Un’americana svaporata (24 anni e gira il mondo da 7) mi avverte: «Tu ti aspetti di veder arrivare un mezzomonaco, vero? Hai presente uno di quelli che si esibiscono nei casinò di Las Vegas a notte fonda, con la coda di cavallo e il vestito fucsia?». Rosa pallido, invece, per l’occasione. Di giorno si cambierà in bianco integrale, scarpe incluse. E mi riceverà nel suo ufficio per spiegarmi come gli è venuta questa idea: «Appena assegnarono le Olimpiadi a Pechino esultai, sul serio, ero contento per la gente cinese, se lo meritava. Poi ho pensato: noi non ci saremo. E ho deciso di fare qualcosa: questo». Indica lo striscione con il logo delle olimpiadi tibetane e lo slogan: «Un mondo, molti sogni». In scala, ha fatto tutto quel che un’olimpiade richiede: una torcia che gira per cinque continenti, un programma di gare (dieci, con un numero chiuso di 30 atleti, 15 maschi e 15 femmine e un solo vincitore per categoria, variazione sul tema del decathlon), una cerimonia d’apertura (che coincide con quella di chiusura, cerchiamo di capire: è la concezione buddista del tempo, non la nostra, oltreché un risparmio significativo). Non ha chiesto il patrocinio del Dalai Lama, non voleva diventasse un evento politico: «Non sono giochi contro quelli di pechino, quelli li guarderò e sarò felice per loro». Ma non lo sembra per se stesso. Problemi? «Le casse sono vuote. Ho speso tutto per la torcia, i poster, l’avvio della macchina. Mi restano quattrocento dollari e ne ho promessi cinquemila solo per i premi ai vincitori. Quando si trtatta del Tibet tutti appoggiano, ma a parole». O a magliette: «Free Tibet» sotto la giacca Dolce & Gabbana: Lobsang non sa neppure come pagare il corriere per farsi rispedire da Tel Aviv la torcia (che intende rivendersi su eBay). Ma non si scoraggia: «Ho avuto gli stessi problemi quando ho organizzato Miss Tibet». E rieccola, in un manifesto alla parete, la ragazza che posava con Gyatso nei vicoli del campo profughi a Delhi. Lobsang intercetta una domanda che non faccio («Come si conciliano spiritualità e culto della bellezza?») e dice: «Come sai, il Dalai Lama ammette la possibilità di reincarnarsi in una donna, ma a due condizioni: dev’essere una monaca. E bellissima». L’evocazione di questa immagine resta sospesa nell’atmosfera, come una bolla spezzata da un colpo alla porta: ecco gli atleti. Lasciate che i giochi comincino Sono una decina, tutti felici come babini la mattina di Natale: è il momento della distribuzione delle divise. I partecipanti alle Olimpiadi ufficiali si infilano nei loro tecno-manti sponsorizzati con usurata degnazione, questi gioiscono indossando una tuta acrilica donata da un negozio di Delhi: per loro sono davvero arrivati i Giochi. Gyatso e Yangchen conoscono infine alcuni dei loro avversari. C’è Tenzin, il monaco timido, che ha viaggiato tre giorni per essere qui. Ha 25 anni e, come tutti i suoi confratelli, va pazzo per il calcio, gioca in attacco, gli piace Rooney. Pare che, senza la tonaca a impacciarlo, corra fortissimo. Poi ci sono i sette studenti della scuola profughi, la Tibetan Transition School. Sorge in mezzo a una vallata. Ci arrivo in auto, incrociando la moto del preside che va a lavarsi i panni nel fiume. Le misure di sicurezza sono state intensificate (nel senso che il guardiano ti chiede se hai da accendere prima di lasciarti passare) dopo i moti di marzo. La Cina nutre molti sospetti su questo tipo di istituzioni. un pomeriggio mite quando varco il cancello, i ragazzi giocano a pallacanestro nella pausa delle lezioni (conto sette minuti e mezzo prima che facciano un centro). Gli alunni sono duemila, tutti rifugiati dal Tibet. Studiano la storia perduta e la perduta lingua. Quando arrivano qui molti parlano soltanto il cinese, sono computer azzerati e da riprogrammare. Imparano il tibetano insieme con l’inglese, l’informatica insieme con la geografia. Si sono lasciati alle spalle le famiglie per riavere una vita, ma per ora sono ventenni senza un passaporto e nessun’altra frontiera da varcare. Le donne sembrano bambine, dimostrano dieci anni di meno. Gli uomini sono resi ancor più giovanili da acconciature modaiole realizzate da un barbiere in un villaggio a dieci chilometri da qui, dove vanno di corsa, per allenarsi. In Tibet erano corridori, tiratori con il fucile, ma soprattutto si cimentavano in uno sport che non sarà alle olimpiadi. Uno di loro me lo spiega, più a gesti che a parole: si trattava di cavalcare e afferrare al volo, chinandosi, una sciarpa avvolta in un paletto conficcato nella terra. Se ho capito bene. A differenza degli indiani, nessuno di loro sorride quando ha finito di raccontarti qualcosa: torna dentro se stesso, chiude la porta, spegne la luce. Soltanto la preparazione della foto di gruppo diffonde un’inedita allegria. Tenzin leva la tonaca e diventa un altro, una delle ragazze rifiuta di togliersi il filo di perle anche sotto la tuta, Gyatso gonfia il petto orgoglioso reggendo la bandiera. Hanno cicatrici, fuori e dentro, malanni e nostalgie. Non sanno di correre sul vuoto, verso una gara senza medaglie perché non ci sono soldi per comprarle. L’unica certezza che hanno sul futuro è che, dopo questa fiammata, saranno dimenticati e il mondo intero s’inchinerà alla gran torcia di Pechino e al suo incalcolabile valore commerciale. Ma adesso l’incommensurabile Patricio Estay, il fotografo apolide che ha scattato per sette anni in Tibet, è pronto a riprendere un momento senza possibili repliche. Sorride al centro Lobsang, biancovestito sacerdote della bellezza, sorride Tenzin nella sua parentesi di laicità, sorride Gyatso, l’uomo liberato. Sorridono (quasi) tutti. Prima del tuffo, del lancio e di quel che verrà. Finisce qui. Questo articolo soggiace a una scelta editoriale olimpica e decoubertiniana. Non racconta la storia dei vincitori, racconta quella di chi ha partecipato. Gabriele Romagnoli