Il Sole 24 Ore 18 maggio 2008, Elisabetta Rasy, 18 maggio 2008
Frida, segreti nella toilette. Il Sole 24 Ore 18 maggio 2008 Qualche anno fa una pronipote di Frida Kahlo per il cinquantesimo anniversario della morte della zia – scomparsa a quarantasette anni, nel luglio del 1954 – presentò una collezione di gioielli e abiti ispirati allo stile della celebre pittrice, etichettandoli con il nome di lei e così scatenando una violenta polemica sulla stampa messicana
Frida, segreti nella toilette. Il Sole 24 Ore 18 maggio 2008 Qualche anno fa una pronipote di Frida Kahlo per il cinquantesimo anniversario della morte della zia – scomparsa a quarantasette anni, nel luglio del 1954 – presentò una collezione di gioielli e abiti ispirati allo stile della celebre pittrice, etichettandoli con il nome di lei e così scatenando una violenta polemica sulla stampa messicana. Considerata una delle artiste più importanti del Novecento, Frida in Messico è qualcosa di più: una sorta di santa laica e rivoluzionaria, la protettrice delle donne in rivolta, un’icona dell’identità nazionale. Che diventasse un’etichetta su capi di moda sembrava un insopportabile oltraggio. In realtà, nella vita dell’artista i vestiti ebbero fin dall’inizio un ruolo tutt’altro che secondario. Da ragazza, quando conobbe l’uomo che avrebbe amato tutta la vita, sposandolo non una ma due volte, il pittore Diego Rivera, vulcanico ed esorbitante come i suoi murales, Frida vestiva abiti di taglio maschile o comunque austeri, da militante rivoluzionaria, simili a quelli dell’amica Tina Modotti, la fotografa comunista italiana che viveva a Città del Messico. Ma proprio il giorno del matrimonio con Diego decise di cambiar pelle: facendosi prestare la gonna coi volant, la camicetta colorata e il rebozo dalla cameriera, si presentò al futuro marito e al mondo nell’aspetto della tehuna, una di quelle donne indie che per la loro forza fierezza e coraggio erano considerate la perfetta incarnazione della resistenza indigena ai colonizzatori, l’anima del l’America precolombiana. Così, mentre in Occidente le grandi sartorie ideavano la silhouette sobria e anonima della donna contemporanea, Frida inventava la sua moda etnica che incantava gli ammiratori di Parigi e New York. Ma non era questione di look, e neanche soltanto una scelta culturale che la univa a Rivera, che immortalava le figure muliebri preispaniche nei suoi affreschi. In quel profluvio di stoffe contadine e preziose e di coloratissimi gioielli dalle forme arcaiche, in quell’aggiungere corpo al corpo, Frida opponeva tutta la resistenza di cui era capace alla sofferenza che la vita le aveva già procurato e che, lucidamente, profetizzava per il futuro. A sei anni una poliomielite le ha menomato la gamba destra; a diciotto un terribile incidente le ha spezzato colonna vertebrale, femore e costole, lasciandole un debito di dolore che non riuscirà mai a estinguere e un violento sentimento di diversità. Quel corpo di dolori – che il tempo rinnovò in cruente maternità interrotte, in operazioni e continue terapie – Frida lo raccontò nei suoi quadri, che hanno la precisione implacabile degli incubi, ma anche nella trasformazione della sua minuta e tormentata persona nella figura di un’antica dea o in un sorprendente idolo di templi distrutti. Nella sua dimora santuario, la Casa Azzurra di Coyoacan, il sobborgo di Città del Messico dove era nata e dove morì, c’era un luogo deputato alla trasformazione: la sua personale camera da bagno, dove protesi e busti ortopedici simili a corazze medioevali e grucce si ammucchiavano insieme alle scatole dei medicinali ma anche ai materiali del suo stravagante maquillage e ai flaconi di profumo e persino ai poster di Marx e di Stalin che, come santi popolari, vegliavano sul rito del suo riscatto corporeo. Un bagno che era camera di tortura e camera delle meraviglie nello stesso tempo. Alla morte di Frida, quando la Casa Azzurra diventa un museo, il bagno viene chiuso al pubblico. Ma nel 2004 i curatori ne decidono un’apertura esclusiva per Graciela Iturbide, figura di spicco della fotografia mondiale non solo per le foto dedicate, tra quotidianità e rito, al Messico natale, ma anche per il progetto India-Mexico realizzato con Sebastiao Salgado e Raghu Rai. Graciela non aveva ancora dieci anni quando Frida Kahlo morì ma, aldilà del culto nazionale, c’è qualcosa di molto preciso che lega le due artiste: la fotografa ha dedicato il suo primo grande ciclo di immagini alle donne dello Juchitan, le stesse che Frida prendeva a modello estetico e psicologico, vestendosi come loro, pettinandosi come loro e sforzandosi di parlare con la loro stessa libertà e audacia. Frida iniziava la giornata passando molte ore nel bagno per prepararsi alla battaglia con la realtà: Graciela Iturbide ci si è barricata per una settimana in una conversazione silenziosa con la pittrice, indagando con l’obiettivo le tracce di quell’antica lotta. Ora, dopo una mostra alla National Gallery of Art di Washington, una scelta di queste fotografie viene presentata in un libro, El bano de Frida, da una casa editrice romana, la Punctum: una sorta di ipnotizzante film senza parole dove quelle antiche reliquie di sofferenza femminile, solitarie in un sacrale bianco e nero e sospese tra presenza e assenza, tornano trasformate in icone del lato segreto e doloroso del l’artista, ma anche come figure di quella costellazione arcaica e misteriosamente notturna che ispirava la sua arte. Elisabetta Rasy