Il Sole 24 Ore 18 maggio 2008, Gianfranco Ravasi, 18 maggio 2008
Fede e ragione in cerca di «verità». Il Sole 24 Ore 18 maggio 2008 Continuamente papa Benedetto XVI si interroga sul rapporto tra filosofia e teologia e sul suo fondamento: la filosofia lo trova nella ragione, la teologia in Dio
Fede e ragione in cerca di «verità». Il Sole 24 Ore 18 maggio 2008 Continuamente papa Benedetto XVI si interroga sul rapporto tra filosofia e teologia e sul suo fondamento: la filosofia lo trova nella ragione, la teologia in Dio. Solo che in entrambi i casi la verità non può essere dimostrata in maniera assoluta e certa. Nel primo caso infatti l’uomo deve sempre porsi la domanda: «Come una ragione si dimostra ragione vera?». D’altro canto anche la teologia deve continuamente impegnarsi per dimostrare «la propria ragionevolezza», la ragione della propria fede: theo-logos, come si può leggere nella sua etimologia. Ciò che accomuna le due scienze, la filosofia e la teologia, è più che altro il metodo: entrambe si devono mettere alla ricerca, in ascolto, «in cammino» scrive il Santo Padre. Il loro limite, riflesso dell’umana limitatezza, deve diventare l’occasione anche della loro possibile espansione l’una verso l’altra «senza confusione e senza separazione» per giungere a un orizzonte di senso di maggiore «grandezza e vastità». Se la filosofia in tempi moderni incarna l’ideale laico di una religione dell’uomo in opposizione alla religione di Dio e alla teologia, papa Benedetto XVI ci dice che queste due religioni, quella laica e quella del credente, quella dell’uomo e quella di Dio, possono tornare a dialogare, mentre si interrogano sul loro fondamento e sulla loro verità, sulla via della ricerca del bene. E mi sembra che papa Benedetto XVI indichi chiaramente questo percorso comune a filosofia e teologia, quando scrive che «verità significa più che sapere» e ha un fine "pratico" che è appunto il bene dell’uomo. Chiedo a monsignor Ravasi se, alla luce di questi brevi cenni, può approfondire le tematiche che il Santo Padre sollecita con le sue parole e che mi sembrano importanti per il dialogo tra laici e credenti. Lucio Coco Bée Penso sia difficile delineare meglio di quanto abbia fatto il nostro lettore non solo lo status quaestionis, ma anche il progetto che dovrebbe essere seguito per sviluppare un dialogo su fede e ragione tra "laici" e credenti. Ugualmente penso che sia, però, impossibile raccogliere il suo invito ad approfondire questo discorso nel perimetro limitato di un Fermo posta. Vorrei, perciò, sostare in modo molto semplificato solo su un aspetto preliminare della questione, quello della nozione e della funzione stessa di «verità». Ripeto: è solo una semplificazione, quasi uno spunto per ulteriori percorsi. Nella grande tradizione classica e cristiana il vero è visto come un primum che ci precede e verso il quale la ricerca dell’uomo tende, un po’ come affermerà simbolicamente Musil nell’Uomo senza qualità: «La verità non è un cristallo che si può mettere in tasca, è un mare sconfinato in cui ci si immerge». O Adorno, quando nei Minima moralia riconosce che, come accade per la felicità, «la verità non la si ha ma ci si è». Nella concezione filosofica greca, come l’eunomía, cioè il riferimento alla giustizia "oggettiva" in sé stante, è fonte della norma etica, così l’alètheia antecede come meta di orientamento l’attività dell’intelletto, rendendo la filosofia nella sua intima essenza ricerca e servizio della verità che la trascende e ne costituisce l’oggetto. La modernità ha, invece, impresso a questa visione una netta torsione, proponendo un modello alternativo, a partire dal positivismo legislativo del Leviatano di Hobbes col celebre asserto Auctoritas non veritas facit legem. Alla verità intrinseca si opponeva, dunque, l’autorità civile o religiosa che poteva sancire norme prescindendo da quella verità. Da allora si è giunti fino all’insofferenza stessa nei confronti della verità intesa nel senso "classico" sopra evocato, nella convinzione che essa sia una remora nella ricerca intellettuale. «Truth, whatever that is, definitely takes the hindmost», ammoniva Patricia Smith Churchland, la verità, qualunque essa sia, deve occupare chiaramente non più il primo posto di riferimento ma dev’essere relegata nelle retrovie, come retroguardia e zavorra del pensiero. Anzi, c’è chi la ritiene nociva alla retta e libera ricerca, come osservava Sandra Harding che, ribaltando il famoso detto del Cristo giovanneo «La verità vi farà liberi», dichiarava: «La verità, qualunque essa sia, non ci farà liberi», e già Michel Foucault aveva segnalato come grave pericolo dell’intelletto proprio il concetto di verità, ritenuto esclusivo, impositivo, alla fine schiavizzante. In questo particolare contesto si colloca, in controtendenza, l’insistito "ritorno alla verità" già inaugurato dall’enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II, ove, ad esempio, si leggeva che «è necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante» (n. 83). Ma è soprattutto con Benedetto XVI che questo itinerario si allarga sempre più, a partire dall’ormai celebre discorso di Regensburg, nella sua sostanza capitale secondo la quale il Papa può affermare che «l’ethos della scientificità è volontà di obbedienza alla verità». Si supera, così, una concezione della scienza come mera "tecnica", ferma alla semplice fenomenologia e alla funzionalità, si travalica «la limitazione autodecretata dalla ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento» ed è qui che si apre il confronto con l’orizzonte più vasto della verità "metafisica". entro queste coordinate generali che teologia e scienza, filosofia ed etica coi propri statuti epistemologici possono confrontarsi e dialogare. Gianfranco Ravasi