Corriere della Sera 18 maggio 2008, Nicola Rossi, 18 maggio 2008
Fannulloni, cacciarli non basta. Corriere della Sera 18 maggio 2008 Caro direttore, presso il ministero dello Sviluppo economico è, da qualche tempo, collocato un dipartimento le cui competenze sono, in massima parte, competenze di indirizzo, valutazione e verifica più che di spesa
Fannulloni, cacciarli non basta. Corriere della Sera 18 maggio 2008 Caro direttore, presso il ministero dello Sviluppo economico è, da qualche tempo, collocato un dipartimento le cui competenze sono, in massima parte, competenze di indirizzo, valutazione e verifica più che di spesa. In altre parole, il luogo dove, in linea di principio, dovrebbe essere facile immaginare una puntuale e concreta applicazione di un criterio di merito. Bene, in quel dipartimento vige da qualche tempo un accordo, avallato dalle organizzazioni sindacali, in cui i premi di produttività sono definiti per l’80% a partire dalla qualifica dei funzionari e per il 20% in base a una valutazione della produttività degli stessi. Poco? Molto? Difficile dirlo. Ma, insomma, meglio che niente. Come definire la produttività, si chiederà il lettore? Eccolo servito: nelle cinque direzioni presenti nel dipartimento, ogni funzionario può essere valutato con un voto compreso fra il 3 ed il 9. Sorprendente? Non del tutto perché l’accordo prevede che comunque la media dei voti, direzione per direzione, non possa essere diversa da 6. Talché per ogni funzionario assiduo e meritevole (da 9, per intendersi) dovrà comunque esserci un funzionario pigro e disinteressato (da 3, per essere chiari). Risultato, non ci sarà nessun 9 e nessun 3. E – quel che più importa – nessuna direzione sarà diversa dalle altre: la valutazione della produttività è, in linea di principio, ammissibile purché sia certo che la produttività è uguale per tutti, soprattutto per i dirigenti. Perché tutto questo? Perché siamo in presenza di una rappresentanza sindacale insensibile alle necessità della collettività? Perché non esistono norme in grado di rendere cogente il rispetto di altre norme (e così all’infinito, con buona pace della semplificazione)? Anche, ma non solo. La realtà è, forse, più semplice. La produzione prevalente della Pubblica Amministrazione non è data, oggi, dai servizi per il cittadino ma, molto più semplicemente, dalla capacità di intermediazione – capacità di interferire nelle azioni e nelle scelte di terzi – da cui estrarre una rendita (che nelle mani della politica si trasforma poi in canale di costruzione del consenso). Certo, non è sempre e dovunque così – per fortuna – ma, in media, è così ed in alcune parti del Paese è quasi sempre così. Il pubblico impiego è funzionale a questo obbiettivo produttivo e la sua incapacità di valutare e valutarsi – il suo rifiuto dell’idea stessa di responsabilità – è la naturale implicazione della natura del processo produttivo che caratterizza le Pubbliche Amministrazioni. Riproporre, puramente e semplicemente, il tema della semplificazione non farà altro che produrre complicazioni ad altri livelli (come è già avvenuto negli ultimi anni). Insistere sui costosi esperimenti di digitalizzazione delle Pubbliche Amministrazioni continuerà a tradursi, come è già avvenuto, in tanti computer spenti su tante scrivanie vuote. Porre, con forza, il tema degli incentivi e delle punizioni è necessario ma, purtroppo, tutt’altro che sufficiente. Se vuole che il suo sforzo meritorio abbia successo, il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, parta da questa elementare constatazione: la Pubblica Amministrazione ha bisogno di ridefinire il proprio prodotto ed i propri processi produttivi, in primo luogo. Riducendo al minimo indispensabile le sedi e i momenti dell’intermediazione e concentrandosi sui suoi compiti primari: quelli per cui vogliamo che una Pubblica Amministrazione esista. Fra questi non c’è, per esempio, la redazione di statistiche al posto dell’Istat (come accade nel dipartimento di cui sopra). Non c’è, per fare un secondo esempio, la valutazione dei progetti di investimento (che impegna nugoli di pubblici funzionari in tutto il Paese). Non c’è la valutazione di progetti imprenditoriali di ricerca e sviluppo. Non ci sono le tante autorizzazioni, i tanti permessi, le tante concessioni, le tante licenze che punteggiano la nostra vita quotidiana. Non c’è gran parte del pane quotidiano – non a caso un pane ad alta intensità di intermediazione burocratica e politica – delle nostre Pubbliche Amministrazioni. Far funzionare un tribunale o una scuola elementare, mantenere l’ordine pubblico è infinitamente più faticoso e meno gratificante che non decidere su un finanziamento o concedere un qualsivoglia lasciapassare. E però, è per la prima cosa che abbiamo una Pubblica Amministrazione. Non per la seconda. Cambiare il prodotto. Costringere la Pubblica Amministrazione sul suo core business, quindi (il che, per inciso, si ottiene anche impedendo che la politica inondi la Pubblica Amministrazione di regole vuote e di irragionevoli procedure). E, di conseguenza, cambiare la sua forza lavoro perché solo un ingenuo può pensare di riqualificare chi per decenni ha prodotto solo ed esclusivamente intermediazione per convincerlo a produrre servizi (possibilmente di qualità). E dunque ben vengano i piani di prepensionamento come accade in qualunque azienda che debba trovare una nuova e più sfidante collocazione sul mercato. A quel punto, incentivi e punizioni, formazione e merito saranno conseguenze. E la semplificazione smetterà di essere una parola da associare ad un sorrisetto, come accade oggi in qualunque ufficio pubblico. Nicola Rossi