Maurizio Ricci, la Repubblica 17/5/2008, 17 maggio 2008
MAURIZIO RICCI
«Acqua, acqua dovunque e non una goccia da bere», fa gridare Samuel Coleridge al suo Vecchio Marinaio nella "Ballata" di due secoli fa. Presto, il Marinaio potrebbe non essere più solo a guardare disperato una inutile distesa di acqua salata. Meno dell´1 per cento dell´acqua del pianeta è dolce, e sta finendo in fretta: già un miliardo di persone, oggi, non ha abbastanza acqua e, fra il 2030 e il 2050, saranno molte di più. Ecco perché l´idea di produrre su scala industriale acqua potabile, togliendo il sale dal mare, sta conoscendo un boom, con dissalatori che spuntano come funghi dalla Cina al Golfo Persico, a Israele, alla Spagna, alla Florida. Il boom è talmente rapido da scavalcare anche previsioni recenti. Cina e India avrebbero dovuto dissalare, complessivamente, 650 mila metri cubi d´acqua al giorno nel 2015. Ma la sola Cina, dove l´acqua è già un´emergenza, ha annunciato progetti per trattare un milione di metri cubi d´acqua fin dal 2010, con l´obiettivo di arrivare a 3 milioni di metri cubi nel 2020.
la risposta all´appello del Vecchio Marinaio? Purtroppo, le cose sono un po´ più complicate. Come sempre, in questa odissea ecologica di inizio millennio, la coperta è corta: per avere l´acqua, si rischia di restare senza luce. E di pompare un altro fiume di anidride carbonica a moltiplicare l´effetto serra.
Oggi, dicono le industrie del settore, che ormai annoverano alcuni giganti come i francesi di Veolia e di Suez, si producono industrialmente 50 milioni di metri cubi d´acqua dissalata al giorno. Per capirci, metà di quanto consuma quotidianamente una regione sovraffollata come quella di Parigi. In tre anni, la produzione è cresciuta di quasi il 50 per cento. E dovrebbe raddoppiare in meno di dieci anni. In realtà, sono cifre un po´ trionfalistiche. Gli esperti del Pacific Institute, che le hanno riviste, hanno visto che comprendono impianti ancora in costruzione, altri mai diventati operativi, altri che hanno chiuso: metà degli impianti americani elencati, di fatto, non sono in esercizio. Ma, anche a ridimensionare le cifre, il boom è innegabile. un boom, dicono i critici, da paesi ricchi, di petrolio o di soldi, perché un dissalatore costa meno - ma non moltissimo di meno - di una centrale atomica e consuma moltissima energia. L´epicentro del boom è, infatti, sulle coste desertiche del Medio Oriente, ma si sta estendendo ad altre regioni aride, dispose a sopportarne il costo.
Per dissalare l´acqua esistono molte tecnologie. C´è anche chi ha pensato a trasportare iceberg (incappucciati di kevlar per ripararli dal sole) vicino ai luoghi di consumo: per strada se ne scioglie solo il 20 per cento. La più diffusa è anche la più antica: il calore. Si fa bollire l´acqua, ad alta pressione per abbassare il punto di bollitura fino a 45 gradi. I sali restano sul fondo e poi si condensa il vapore in acqua dolce. Circa il 60 per cento dell´acqua dolce industriale viene prodotta in questo modo. Il grosso del restante 40 per cento viene prodotto con una tecnologia più moderna, quella dell´osmosi inversa. Semplificando al massimo, l´acqua passa attraverso una membrana, che trattiene sale e impurità. Quale acqua? Quella di mare, prevalentemente: solo il 15 per cento dell´acqua utilizzata oggi negli impianti è acqua salmastra o acqua dolce di scarto riciclata. E questa è una prima ragione della diffidenza degli ecologisti verso il boom in atto: l´acqua di mare viene pompata negli impianti, organismi marini compresi. E quello che viene restituito è, in buona sostanza, sale in quantità crescenti, che mina l´equilibrio del mare davanti alle coste.
Ma il punto vero è che, rispetto all´acqua salmastra o all´acqua di scarto, l´acqua di mare è più abbondante e disponibile, ma più costosa da dissalare, semplicemente perché contiene il triplo di sale. E il nodo più difficile, per l´industria della dissalazione, è quello dei costi, compreso quello del consumo di elettricità, che si riflette direttamente sulle emissioni di anidride carbonica. Anche se apparentemente semplice, un dissalatore è un impianto costoso. Quello progettato ad Ashkelon, in Israele, capace di dissalare un miliardo di metri cubi di mare l´anno, costerebbe 2 miliardi di dollari, più o meno la metà di quanto costa un reattore nucleare di nuova costruzione. Per ora, tuttavia, è solo un megaprogetto sulla carta. Il dissalatore già esistente ad Ashkelon, che è il più grande esistente e di acqua ne produce solo 100 milioni l´anno, è comunque costato 250 milioni di dollari. Ma il problema è il consumo di elettricità, che i dissalatori divorano: ci vogliono da 2 a 5 chilowattora per produrre un metro cubo d´acqua. L´impianto di Carboneras, in Spagna, ingoia, da solo, un terzo di tutta l´elettricità consumata nella sua regione, l´Almeria. In un mondo in cui, già oggi, la produzione di elettricità appare appena sufficiente per i consumi abituali, l´entrata in campo dei dissalatori significa l´emergere di un nuovo formidabile competitore per gli usi tradizionali.
Inoltre, questo significa che, poiché il 60 per cento dei costi di un dissalatore è dato dall´energia, il costo di produzione dipende dal costo dell´elettricità. Nei dissalatori del Golfo Persico si continua a distillare l´acqua con il metodo termico del vapore, perché si usa il petrolio fornito a basso costo dai governi. Con l´osmosi inversa, i costi si dimezzano, ma sono ancora, dicono negli uffici di Suez, di 40-80 centesimi a metro cubo. Tutto dipende dal combustibile usato, a monte, per produrre l´elettricità.
E lo stesso vale per un altro fattore: le emissioni di CO2. Ci sono vari progetti, nel mondo, per far funzionare i dissalatori con l´energia del vento o dei pannelli fotovoltaici. Ma le stesse dimensioni del fabbisogno di elettricità per impianti su grande scala rende oggi questa ipotesi ancora marginale. Restano il petrolio, il nucleare (a cui, infatti, stanno pensando i Paesi del Golfo), il carbone e il gas. E le loro emissioni. Gli esperti hanno calcolato che, a parità di combustibile usato a monte, le emissioni di un impianto a osmosi inversa sono un decimo di quelle di un impianto termico (meno di due chili di anidride carbonica per metro cubo prodotto, contro oltre venti chili). Ma non è la tecnologia del dissalatore l´elemento decisivo. L´impianto di dissalazione in progetto a Sydney è di quelli a osmosi inversa, ma siccome l´elettricità usata viene generata con il carbone, le emissioni legate alla produzione di mezzo milione di metri cubi d´acqua al giorno si tradurrebbero in un milione di tonnellate di CO2 l´anno: «l´equivalente - dice l´Australia Institute - di 220 mila auto in più sulle strade».
Insomma, se l´emergenza acqua vi preoccupa, non potete andare a letto tranquilli, pensando che, comunque, ci sono i dissalatori. Per ora, almeno, in attesa di qualche altro salto tecnologico, il costo è troppa anidride carbonica e qualche rischio di dover fare i turni fra il bicchiere d´acqua al rubinetto e il televisore acceso. E prezzi molto alti. Di sicuro, come ha già notato la Fao, per l´agricoltura, che consuma il 70 per cento dell´acqua dolce disponibile. Ma anche a casa. Ognuno di noi ne consuma, in media, 1.500 metri cubi l´anno. Ammesso che, con quei costi di produzione, la si possa avere a 1 euro a metro cubo, significa una bolletta dell´acqua di 1.500 euro a persona. Due secoli dopo, il Vecchio Marinaio potrebbe gridare: «Acqua, acqua dappertutto e neanche una goccia ad un prezzo ragionevole».