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 2008  maggio 18 Domenica calendario

Il ritorno del cantautore. La Repubblica 18 maggio 2008 Francesco De Gregori è un uomo riservato e curioso

Il ritorno del cantautore. La Repubblica 18 maggio 2008 Francesco De Gregori è un uomo riservato e curioso. A suo modo un ossimoro. Cammina come un´ombra lunga tra le ombre di Roma, ha un fisico asciutto, aristocratico e va all´Auditorium per ascoltare la musica popolare, ha mani da musicista e lo sguardo del giocatore di poker che si diverte per qualsiasi bluff, i suoi come quelli degli altri. Non sono un grande artista, dice, ma un artista sì. Prende a prestito Totò: non ci tengo né ci tesi mai. «Ma, e lo rivendico senza pudore, canto per lasciare un segno, come un regista fa un film, il pittore un quadro. Ho avuto periodi più o meno felici, ma ho sempre cercato di restare me stesso dentro una vita piena di errori». Arrivederci maestro, il cameriere della trattoria toscana lo saluta così. Lui sorride. E racconta: «Da parte di padre ho antenati piemontesi. Vercelli, credo. Qualche goccia di sangue nobile, per questo motivo qualcuno ancora mi chiama il Principe. un modo per pigliarmi in giro». Quando se ne va, sulle sue scarpe bianche, il cappello bianco, la cintura bianca e con la schiena dritta, e attraversa piazza Mazzini sotto il sole di maggio e il cielo pulito, quartiere Prati, le sue strade da quand´era ragazzino, mi accorgo che mi ha regalato parole da conservare perché potranno tornare utili più tardi, come le carezze non accettate che si mettono da parte in previsione di tempi scuri e solitari. Francesco De Gregori ha fatto un nuovo disco. Si intitola Per brevità chiamato artista. Uscirà tra pochi giorni. Nove canzoni bellissime, nessuna sperimentazione musicale, questa volta nessuna fascinazione rocchettara, la voce migliore da Rimmel in poi. Un ritorno da cantautore a cinquantasette anni, lungo il sentiero della sua esistenza fino a qui, nelle mani un timone per aprirsi, forse, un´altra rotta ma senza sapere da che parte svolterà. Da qualche tempo ama il mare, la barca a vela, la velocità degli antichi. Da sempre predilige la buona educazione, qualità divenuta merce rara in Italia. Dice: « un disco realizzato in assoluta libertà che chiude un contratto con una casa discografica, la Sony-Bmg, e che mi lascia davanti a una prateria, a una tela bianca. Torno a interpretare storie rotonde, con il rischio di risultare noioso e autoreferenziale. Guardo il tempo che passa, cerco di riflettere sulla dolce decadenza e sugli errori che ho commesso. In un certo senso ho tracciato il mio autoritratto. Ho scritto la mia biografia. Non ho più nulla da dimostrare, non sono più un grande venditore di dischi e adesso potrei anche smettere di fare questo mestiere. Mi piacerebbe molto trasformarmi in un pittore, ma sarebbero necessari un rigore e una fatica che non si possono improvvisare e che forse non mi posso permettere. Quand´ero giovane avrei voluto diventare architetto, ma a venticinque anni ho cominciato ad andare in giro con la chitarra». Parliamo a tavola, in un angolo tranquillo che si capisce essere riservato a lui. Davanti ha un´insalata che alla fine non mangerà e un bicchiere di vino bianco. Cominciamo dal titolo, Per brevità chiamato artista. Che cosa significa?«Era la formula che veniva usata quando firmavi un contratto con una casa discografica: Francesco De Gregori, per brevità chiamato artista. Come dire, non sappiamo bene che cosa sei, qual è la tua carta d´identità. Mi è sempre piaciuta la distanza che c´è tra le due parole. Brevità e artista. Le ho incamerate tanti anni fa. Ora, finalmente, le ho utilizzate». Sembra un brano autocritico, non tenero. Un elogio amaro della doppiezza d´animo. «Non del tutto. un avviso ai naviganti. Difende da una parte la libertà dell´artista e dall´altra il suo diritto all´incoerenza. Può essere illuminista e cattolico, Caino e Abele, uno stupido o un ballerino. Io sono davvero uno che conta i cani per strada e dà la buonanotte ai fiori. Metto le mani avanti. E vi dico: attenzione, la nostra risma è questa, abbiamo vite disordinate. Sappiatelo, prima di invitarci a cena». Le piace l´immagine dell´artista maledetto? «Mi affascina l´immagine, anche se io ne sono lontanissimo. Pensi che non mi sono mai fatto una canna, né l´ho mai cantata. Sono stato e resto contrario alle droghe. ciò che ho cercato di insegnare ai miei figli». Nel brano c´è anche una richiesta di maggiore rispetto nei confronti di chi fa musica. «Sì. La canzone è considerata arte di serie B, e questa cosa più si va avanti e più mi stanca. Se al Quirinale ci va il cinema per i David di Donatello, non capisco perché non ci possa andare anche la musica. Fossati, Ligabue, Battiato, Dalla… Non tutta la musica, come non tutti i film. In Italia manca la critica, mancano le occasioni. Noi non abbiamo mai avuto un Ferroni, un Longhi, un Argan. E dovremmo chiederci più spesso se il Festival di Sanremo non restituisca un´immagine deforme e sgraziata del nostro mondo». Quanto ha lavorato all´ultimo album? «Un anno per pensarlo e scriverlo, un mese in sala di incisione. Molto di più per costruirlo nella mia testa. L´identico processo che può stare dietro al "segnaccio" di un pittore su di un muro». Picasso diceva che in uno scarabocchio su un tovagliolo di carta vergato in pochi secondi c´è una vita intera. così anche per lei? «Negli anni raccolgo foglietti, accordi, idee, melodie, suggestioni letterarie. Metto appunti nel portafoglio, arrivo a casa e li infilo in una cartellina, uno zibaldone appoggiato sul pianoforte. Stanno lì come la madre nell´aceto. Un giorno prendono forma compiuta. Non ho canzoni nel cassetto e non mi piace riascoltare i miei vecchi dischi. Mi fanno male. Dopo cinque anni mi sembrano terribilmente invecchiati. Nei concerti, infatti, cambio le mie canzoni». Il terzo brano dell´album si intitola Celebrazione. Il Sessantotto quarant´anni dopo. Un atto d´accusa. «Racconta di un posto in cui sono stato e che non mi è piaciuto. Un posto nel quale non voglio tornare. Sono contrario alla sua celebrazione e a chi, come Capanna, si sente un suo orfano. Il ”68 italiano è diventato come il giorno delle mimose, mentre invece a me sembra una data così poco identificabile, imparagonabile all´assassinio di Martin Luther King, al Vietnam, al Maggio francese. Noi, purtroppo, abbiamo avuto la scalinata di Valle Giulia. quello il nostro ”68? E allora io sto con Pasolini che simpatizzava per i poliziotti perché erano figli dei poveri».  una condanna assoluta e senza rimedio, la sua? «No. Il ”68 ha disseminato tracce positive sugli anni successivi, ma il suo massimalismo verbale ha avuto pesanti ricadute nel terrorismo politico degli anni Settanta. Chi lo nega lo fa arrampicandosi sugli specchi. Non si può parlare di rivoluzione senza definirne i contorni e le conseguenze deleterie. Io penso semplicemente che il Sessantotto non sia stato un anno mitico, uno spartiacque della storia italiana. Allora lo è stato di più il ”78, con l´omicidio Moro. Lì il Paese ha cominciato davvero a cambiare, lì è successo qualcosa di veramente storico. Oggi molti rimpiangono il Sessantotto perché rimpiangono la loro giovinezza, un po´ come se mio padre avesse rimpianto le leggi razziali perché a quel tempo aveva vent´anni. Lo so, è un paradosso esagerato. Chiedo scusa». Le riporto un passaggio di Finestre rotte: «C´è gente senza cuore in giro per la città, di notte bruciano persone e cose solo per vedere che effetto fa». l´Italia di questi giorni? « ciò che vediamo tutti. Il problema è che subito dopo aver guardato chiudiamo gli occhi. Quello che sta accadendo in queste ore nei confronti degli extracomunitari e dei Rom è il sintomo di una democrazia bloccata e in crisi. La colpa è di tutti, anche mia. Siamo un Paese triste, arretrato e incattivito che ha bisogno di essere modernizzato in fretta. Dandosi allegria, rigore, giustizia sociale. Dovremmo prendere esempio dalla Spagna». Mai accarezzata la tentazione di fuggire? «Più di una volta. Ci penso spesso. Non è detto che siccome sei nato in un certo posto, in quel posto tu debba anche morire. Alla fine resto qui, non so bene perché. Potrei prendermi una pausa, un anno o due in un´altra città. Sceglierei Atene, splendida e caotica culla di tutte le civiltà moderne». Esistono ancora la destra e la sinistra? « una contrapposizione ormai vecchia, come ha dimostrato l´esito delle ultime elezioni. Esistono i conservatori e i riformisti. Ogni altra definizione appartiene al passato». Lei è andato a votare? «Sì. Il voto è un diritto importante. Ed è uno schiaffo in faccia al grillismo». Non le piace la deriva politica di Grillo? «No. Quando lo incrocio in tv, cambio canale». Per chi ha votato? «Per Veltroni». Nonostante le critiche mosse nei suoi confronti alla vigilia delle primarie del Partito democratico? «Quelle critiche restano, le ribadisco. Aggiungo che non mi è piaciuto il metodo con cui sono stati scelti alcuni candidati, compreso Rutelli per Roma, all´interno di una bottega oscura di altri tempi, in spregio allo strumento delle primarie che invece hanno avuto il grande merito di portare in piazza la politica». I denigratori di Veltroni dicono che Veltroni è l´unico italiano che crede nel veltronismo. Lei che ne pensa? «Non sono d´accordo su alcune delle cose che Walter fa. Il pullman, un certo tipo di linguaggio, il desiderio di piacere, certe mitologie letterarie. Di Veltroni sono amico, non gli risparmio nulla, lui si arrabbia, mi telefona, lo farà anche questa volta. Ma è il suo carattere, non si può cambiarlo, come io non posso modificare il mio. Ma oggi a Walter riconosco il merito di un progetto che mi piace molto. Ha avuto il coraggio di andare da solo, di tagliare con la sinistra radicale. Ha rivoluzionato lo schema della politica italiana. Doveva recuperare molto svantaggio, ha cercato di prendere tempo e di anticipare la riforma della legge elettorale, nelle condizioni in cui si è andati a votare la vittoria era impossibile. Adesso si potranno fare cose importanti anche dall´opposizione. Il Pd ha avuto poco tempo, l´errore è avere aspettato troppo. Doveva nascere prima, non si doveva attendere che la figura e il governo di Prodi fossero così consumati. come se il Partito democratico fosse nato in contrapposizione a Prodi stesso. Peccato». Ancora Berlusconi a Palazzo Chigi, Schifani al Senato, il postfascista Fini alla Camera. preoccupato? «Io vivo d´istinto anche la politica. Non temo l´arrivo dei barbari, non sto con chi si straccia le vesti. Non possiamo pensare che ci governino sempre quelli che ci sono simpatici, a volte ci capita di trovarci a dover fare i conti con chi viene da una cultura opposta alla nostra. Ho apprezzato il messaggio di Berlusconi per il 25 aprile e il discorso di Fini il giorno dell´insediamento alla Camera. Mi piace l´idea del dialogo sulle riforme. Spero nella condivisione, non nell´inciucio e nello scambio di fiori, naturalmente. Siamo agli inizi, aspetto di vedere i fatti prima di giudicare. Non ho mai amato l´antiberlusconismo a prescindere della sinistra, un atteggiamento che chiudeva così la porta a qualsiasi altra analisi. La pregiudiziale dell´antiberlusconismo ha condizionato l´opposizione, è stata un limite alla sua intelligenza politica e alla sua crescita culturale». Torniamo alla musica. Quanto amore c´è in questo ultimo disco? «Spero molto, e mi auguro non declinato in maniera zuccherosa. Considero l´amore, il poter amare, un grande privilegio. Non bisogna vergognarsi di amare, è l´unico campo nel quale va evitato il pudore dei sentimenti. L´amore è la vita. E l´amore è spesso incomprensibile. Nell´album c´è una canzone, L´angelo di Lyon, scritta da un artista statunitense, Tom Russel, e tradotta da mio fratello, Luigi Grechi, che è un inno alla trascendenza dell´amore. la storia misteriosa di un americano che abbandona tutto per seguire il volto di una donna intravisto tra la folla. Gli occhi di una donna di cui non conosce neppure il nome e per la quale viaggia fino a Lione, un posto esotico per un americano, no? Per amore, solo per amore. una canzone meravigliosa e incomprensibile. Sono sempre stato un difensore dell´incomprensibilità delle canzoni. Questa volta mi sono tolto il lusso di cantarne una senza averla scritta io». A cinquantasette anni come si sente? Un po´ più grande o un po´ più vecchio? «Un po´ più sereno, ma domani chissà. A trent´anni vai veloce, vuoi tutto e spesso anche il tutto non ti basta, dai risposte sbagliate, confondi gli indirizzi. Oggi mi sento quasi saggio, mi godo l´estetica della rinuncia. Conduco una vita riservata e pochissimo bizzarra, frequento un piccolo branco di amici, una pattuglia di coraggiosi, cerco di vedere il bene negli altri, mi fido del prossimo fino a prova contraria, a volte non me ne bastano sei, di indizi, per accettare la delusione di un incontro. Sto molto in casa, ascolto pochissima musica, mai la mia, leggo Charles Wilford, Philip Dick e soprattutto Cormac McCarthy, il mio autore preferito di cui sono riuscito a recuperare proprio nei giorni scorsi anche Il guardiano del frutteto, l´unico suo romanzo che mi mancava. Mi sarebbe piaciuto un film di Stanley Kubrick da un suo libro, Cavalli selvaggi, per esempio. Sento la morte più vicina, come è naturale, ma non la temo. Mi spaventa il cerimoniale della morte, questo sì». E crede in Dio? «Certamente non sono un ateo, credo in qualche forma di trascendenza, ma non nel Dio con la barba bianca. Non mi sento di fare scommesse su nulla, credo che non avere sicurezze sia una dimostrazione di laicità. E c´è un´altra cosa». Quale? «Ogni tanto ho paura». Il brano che chiude l´album si chiama L´infinito. La voce di De Gregori, la sua voce più bella, canta così: «Ho viaggiato fino in fondo nella notte, e stava nevicando, e ho visto un grande albergo con le luci spente, e ho avuto un po´ paura, ma nemmeno tanto, la strada andava avanti, ed io slittavo dolcemente». Come capita a tutti coloro che hanno ancora la voglia e il coraggio di camminare dentro la vita. DARIO CRESTO-DINA