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 2008  maggio 15 Giovedì calendario

Lettera. 1915: L’ITALIA IN GUERRA LA SCONFITTA DI GIOLITTI Corriere della Sera 15 maggio 2008 Un lettore ci ha descritto una ipotetica storia universale basata sul senno di poi e sui se e sui ma a cui lei ha dato una risposta interessante e divertente

Lettera. 1915: L’ITALIA IN GUERRA LA SCONFITTA DI GIOLITTI Corriere della Sera 15 maggio 2008 Un lettore ci ha descritto una ipotetica storia universale basata sul senno di poi e sui se e sui ma a cui lei ha dato una risposta interessante e divertente. Mi permetto di porle io un piccolo «se» di casa nostra in quel tormentato Novecento. Se gli italiani avessero seguito Giolitti nel non voler andare nella Grande Guerra del ’15-’18, che cosa sarebbe successo? Angelo Giunchino angelo.giunchino@alice.it Caro Giunchino, Credo che occorra anzitutto ricordare ai lettori quale fu effettivamente la posizione di Giovanni Giolitti alla vigilia del conflitto. Quando l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia, Giolitti era a Vichy per una lunga vacanza dopo le dimissioni dalla presidenza del Consiglio nel marzo del 1914. Decise di rientrare in Italia, ma fece una breve sosta a Parigi e chiese all’ambasciata italiana di trasmettere al governo, presieduto da Antonio Salandra, una raccomandazione. Era convinto che l’iniziativa austriaca fosse, come si direbbe oggi, unilaterale e che l’Italia avesse il diritto di starne fuori. Era già accaduto nel 1913, quando l’Austria aveva cercato di coinvolgere i suoi alleati della Triplice in una operazione contro la Serbia, e Giolitti, allora presidente del Consiglio, aveva fatto sapere fermamente a Vienna e Berlino che l’Italia, se vi fosse stato un conflitto, non si sarebbe sentita vincolata dal trattato di alleanza con gli imperi centrali. Nell’estate del 1914 sostenne che occorreva fare e dire la stessa cosa. In quel momento non fu difficile convincere il governo Salandra che la neutralità era la migliore delle soluzioni possibili. Ma per una parte importante della classe dirigente italiana la neutralità non poteva essere una scelta definitiva. Era soltanto un modo per prendere tempo, attendere l’evoluzione delle cose e adottare alla fine la decisione più conveniente agli interessi del Paese. Dietro questa linea vi era la convinzione che la guerra avrebbe modificato il rapporto fra i poteri europei e che l’Italia, se fosse rimasta alla finestra, si sarebbe trovata, alla fine della guerra, implicitamente rimpicciolita e sarebbe scivolata di qualche posto nella graduatoria delle potenze. So che questi calcoli possono sembrare oggi assurdi e velleitari. Ma non è possibile giudicare il passato senza cercare di comprendere quali fossero allora gli orientamenti e i sentimenti degli uomini di governo, non soltanto in Italia. Sull’ipotesi di un intervento al momento opportuno vi era quindi, nella classe dirigente liberale del Paese, un generale consenso. E vi era consenso altresì sul fatto che in tal caso, con ogni probabilità, l’Italia avrebbe finito per scendere in guerra a fianco della Francia e della Gran Bretagna. Perfino Giolitti, in una conversazione con Olindo Malagodi (giornalista e padre del leader liberale del secondo dopoguerra) disse che «occorreva trovare modo d’intervenire (...) per testamento». probabile che pensasse a un’operazione diplomatica, più che militare, da realizzarsi all’ultimo momento non appena l’Austria fosse stata sul punto di crollare. Dopo l’esperienza della guerra di Libia, durante la quale aveva constatato le carenze dell’apparato militare italiano, Giolitti si era convinto che l’Italia non fosse abbastanza robusta per lasciarsi coinvolgere in un grande conflitto europeo. La neutralità, in quelle circostanze, gli sembrava la migliore delle soluzioni possibili. «Finché non sorga la necessità di scendere in campo per la tutela dei nostri vitali interessi – disse in quei mesi – noi dobbiamo tutti osservare lealmente la neutralità, perché soltanto questa osservanza ci lascia intatta quella grande forza che è la libertà d’azione». Più tardi, quando si accorse che il governo stava scivolando verso il conflitto, scrisse a Malagodi per ricordare che l’Italia aveva un disavanzo di 400 milioni e che la guerra lo avrebbe raddoppiato: una stima che si sarebbe dimostrata tragicamente sbagliata per difetto. Valeva la pena di «sacrificare un mezzo milione di uomini per liberarne circa altrettanti? ». Fu sconfitto alla fine da una coalizione bellicista di cui facevano parte il re, la destra liberale, gli interventisti democratici (da Lussu a Salvemini), intellettuali nazional-liberali come Giuseppe Prezzolini, sindacalisti come Filippo Corridoni, gli eredi dell’anarco-sindacalismo, intellettuali e poeti come D’Annunzio, industriali, finanzieri e, naturalmente, Benito Mussolini: tutti convinti, sia detto tra parentesi, che la guerra sarebbe durata soltanto mesi, non anni. Ecco perché non provo neppure a chiedermi che cosa sarebbe successo se l’Italia non fosse entrata in guerra. molto probabile che Giolitti, con la sua posizione neutralista, abbia rappresentato una parte importante della nazione. Ma quella che gridava, manifestava, scriveva e aveva in mano le leve del potere, era quasi tutta contro di lui. Sergio Romano