La Repubblica 15 maggio 2008, GOFFREDO DE MARCHIS, EDMONDO BERSELLI, 15 maggio 2008
Al cinema con Andreotti guardando il Divo Giulio. La Repubblica 15 maggio 2008 Giulio Andreotti si guarda al cinema
Al cinema con Andreotti guardando il Divo Giulio. La Repubblica 15 maggio 2008 Giulio Andreotti si guarda al cinema. Ieri il senatore a vita, 7 volte presidente del Consiglio, ha visto in anteprima Il Divo, il film di Paolo Sorrentino che partecipa al Festival di Cannes. Un ritratto dell´Italia alla fine della prima Repubblica, con al centro proprio lui, Andreotti. Che ha resistito alla tentazione di lasciare la sala prima della fine della proiezione. Poi ha sbottato: « una mascalzonata, io non sono cinico». Chi vorrebbe riflettersi in uno specchio così pieno di sangue, di morti ammazzati, di cinismo al limite della disumanità, di cattivissime frequentazioni e allo stesso tempo di solitudine? Nessuno, nemmeno Belzebù, la "volpe", il "divo Giulio", il 7 volte presidente del Consiglio, insomma Andreotti che ha attraversato la storia d´Italia sul filo dei suoi asettici aforismi e dell´impermeabilità ha fatto la cifra del suo stare sulla scena politica. Perciò nella saletta al Museo degli strumenti musicali a Roma si sarebbe potuto girare un altro spezzone di film, quello di Andreotti che si osserva dall´esterno attraverso gli occhi di un artista e stavolta soffre, reagisce, tutt´altro che insensibile. A modo suo è furibondo, sibila «è una mascalzonata, è cattivo, è maligno», ha persino la tentazione di alzarsi per non guardare più. Andreotti vede Andreotti, seduto in prima fila su una poltroncina di pelle rossa, accanto solo il critico e amico Gianluigi Rondi. Guarda in una proiezione privata il film che parla di lui, che adesso è a Cannes e il 28 maggio sarà nelle sale italiane. "Il Divo", scritto e diretto dal talentuoso regista Paolo Sorrentino (L´uomo in più, Le conseguenze dell´amore, L´amico di famiglia), racconta l´Italia dalla fine della Prima Repubblica all´inizio del processo per mafia contro l´ex premier. Un pezzo di cronaca in cui il protagonista è lui, il divo Andreotti, e intorno si muovono gli uomini della sua corrente, la moglie Livia, la segretaria Enea (solo le donne sono tratteggiate con affetto), i tantissimi morti di quegli anni, Moro, Dalla Chiesa, Ambrosoli, Falcone, Sindona, Lima. Al centro c´è Andreotti, totem di un potere assoluto, simbolo di se stesso, che si muove leggero nei labirinti anche più torbidi della politica. La scena-clou appartiene al mondo dei sogni, è grottesca, è pura fiction. Però colpisce allo stomaco Andreotti. Toni Servillo, che lo interpreta con la testa affondata nelle spalle, la vecchia montatura degli occhiali in celluloide, le orecchie più a sventola della realtà, confessa guardando dritto nella camera. Recita i nomi dei tanti uccisi in quegli anni. Alza la voce, parla di «bombe pronte ad esplodere», spiega che «è necessario fare del male per realizzare il bene». E mentre il monologo va avanti, incalzante, la scena spazia su un camposanto ripreso in bianco e nero, le lapidi candide e ordinate, solo i fiori sono una macchia di colore. Adesso Andreotti, quello in sala, si agita. Per un´ora buona ha seguito la proiezione immobile, il mento appoggiato alle mani di cera, la gambe incrociate. Ora le mani si staccano, si appoggiano sulle ginocchia, la sinistra colpisce forte la destra e nel buio risuona il gesto di stizza. «Questo no, questo è troppo», dice rivolto a Rondi. Andreottianamente, è furioso. Sobbalza sulla poltrona, sembra davvero che voglia alzarsi e andar via. Quando si riaccendono le luci Andreotti non ha ancora sbollito la rabbia. Non querelerà, ma forse non perdonerà. « molto cattivo, è una mascalzonata, direi. Cerca di rivoltare la realtà facendomi parlare con persone che non ho mai conosciuto». Per molti versi, è anche un omaggio alla sua personalità, al suo potere. «Mah - dubita il senatore -. Si può dire che esteticamente è bello, ma a me dell´estetica non frega un bel niente». Visto da vicino, l´Andreotti arrabbiato sa anche perdere il proverbiale autocontrollo. Poi ritrovarlo. E riperderlo. «Capisco che la storia va caricata. Il regista doveva girare così. La mia vita è talmente tranquilla che ne sarebbe venuto fuori un prodotto piatto e senza pepe. Ma la mia corrente, per esempio, beh non era un giardino zoologico come la rappresenta il film. C´erano le invidie, gli scontri, gli scavalchi, la carriera, ma questa è la politica». Il suo potere non è solo quel galleggiare sopra tutto, quel tirare a campare ricordato sullo schermo. «Il mio potere era un certa autorevolezza, un certo tipo di rapporti internazionali. Ma non ho mai avuto desiderio di arricchimento». E il cinismo? «Il cinismo non è nel mio carattere, non sono facile alla commozione, questo è vero. Ma non sono insensibile. E ne ho passate tante perché dava fastidio a molti che la Provvidenza non si fosse organizzata per togliermi dai piedi prima». Ecco, scherza con la morte, torna se stesso, il solito. Si calma, dispensa battute: «Magari chiederò i diritti di immagine. Per darli in beneficenza, s´intende. Forse dirò a mia moglie di non vederlo, anche se lei al cinema va ancora. Cosa le racconterò stasera a casa? Sorvolerò, credo». Ma su come viene descritto il rapporto con Livia, la consorte interpretata da Anna Bonaiuto, arriva l´assoluzione per Sorrentino. La coppia nel film ha momenti d´intimità vera, quasi sensuale. «Non sono romantico, ma le ho sempre voluto bene. Abbiamo cresciuto bene i figli, abbiamo costruito una bella famiglia». Anche la segretaria Vincenza Enea (Piera Degli Esposti) si salva. «Giusto così - dice Andreotti -. Era una brava persona, disinteressata». E gli altri personaggi? Andreotti pensa soprattutto alla "fotografia" di se stesso. Ogni tanto nel buio chiede «ma Gelli è ancora vivo?», «e Riina? ». Moro è il vero fantasma, la ferita aperta. «Non è corretto raccontare la sua morte come se ci fosse dietro qualcosa oltre le Br. La politica ci ha diviso. E le correnti, certo. Ma io e Moro ci conoscevamo da una vita, lui non voleva neanche fare politica ma studiare. stato lui a designarmi come successore della Fuci. I giorni del suo rapimento sono stati durissimi e tornano. Anche per me». Non si considera un intoccabile: «Oggi sono senatore a vita ma per tanti anni i voti me li sono guadagnati». Qualche battuta gli serve a rientrare nel personaggio: « un film impegnato, ma se si occupavano di qualcun altro, era meglio». Durante la proiezione concede un solo sorriso. Quando Servillo confida a Cossiga il grande mistero della sua vita: «Non lo dire a nessuno. Sai, da ragazzo ero innamorato di Mary Gassman, la sorella di Vittorio». E forse ha ragione il film, questo è l´unico segreto che Andreotti è disposto a svelare. GOFFREDO DE MARCHIS Deposito vivente di sapienza papalina, vaso di virtù capitoline, soavitas democristiana, anche nella variante carognesca, allo stato essenziale, Giulio Andreotti potrebbe essere descritto come la vera autobiografia degli italiani, se gli italiani potessero essere circoscritti entro i perimetri della Dc, della chiesa, dello scetticismo romano, del cinismo politico apparentemente più lieve. Invece passerà alla storia più che altro per l´identificazione con il potere. Tutto è transeunte, nella seconda metà del Novecento, meno l´inconfondibile silhouette di Andreotti; e ancora adesso, nel nuovo secolo, se lo si scorge mentre passa in Senato, con i suoi cappotti e i suoi completi, offre la suggestione di un´eternità che invecchia ma non si esaurisce, non si completa, non è mai terminata. La vecchiaia scolpisce i tratti, li esalta, li pietrifica. Oggi il "divo Giulio", il sette volte presidente del Consiglio, «l´autentico erede di De Gasperi» secondo i suoi fan al meeting di Comunione e liberazione, assomiglia a un idolo freddamente malizioso ancor più che maligno. Per chi lo ha visto trasformarsi lentamente nei decenni restando sempre pressoché uguale, Andreotti in questo momento è un Nosferatu minore, e si capisce facilmente perché: dopo essere stato per tutta la vita a contatto con il potere, di casa negli arcana imperii, introdotto nei santuari misteriosi del comando, qualcosa di vampiresco o di diabolico si è fissato nei suoi tratti. Era "Belzebù" già venti, trent´anni fa, il depositario di saperi luciferini, di archivi maledetti, di schede dannate; e per gli italiani che si sentivano rassicurati dal suo humour, le sue battute spesso melense erano ravvivate dall´alone demoniaco del potere, dall´idea che una sua "manina" potesse introdursi in covi dimenticati, apprestando trappole, allestendo tranelli. Dunque è stato amato da alcuni, temuto da altri, e sopportato quasi da tutti proprio perché l´individuo fisico, la sostanza umana chiamata Andreotti, sembrava in grado di tradurre il lampo accecante e il buio solitario della decisione, come pure il silenzio assoluto preteso dall´arte del governo, in un esercizio mediocre, in un eufemismo, in una serie tutto sommato prevedibile e deludente di ovvietà. «Tutto s´aggiusta», come pure «meglio tirare a campare che tirare le cuoia»: il decalogo andreottiano si proponeva come un principio di garanzia immutabile: valeva la sicurezza che il cambiamento si sarebbe svolto nella continuità, che non ci sarebbero stati avventurismi o slanci prometeici, che il funzionamento del paese Italia sarebbe proseguito con prevedibili ritmi parastatali, nel rispetto di pause caffè e pennichelle, perché si sa che il civis romanus, nella sua incarnazione popolare o microborghese, è propenso a vizi pubblici che si condensano in peccati veniali, in modestissimi sciali, in infinitesimali sperperi: che richiedono tolleranza, prudenza, quasi sempre l´assoluzione. Che poi la somma totale dello sciupio si tramuti a un tratto nella montagna del debito pubblico è una di quelle disgrazie economiche e sociali che sfuggono alla percezione del cattolico romano Andreotti. Una figura del suo stampo, che aveva visto il 18 aprile 1948, la guerra fredda, le faide interne alla Dc, che era incocciato nel golpe Borghese e nel caso Sindona, nella strage di Piazza Fontana e nell´assassinio di Aldo Moro, figurarsi se si faceva spaventare da cifre astratte, perfino impossibili da scrivere. Che ci pensasse il suo ministro tecnocrate, Guido Carli, che ci pensassero i tedeschi, Helmut Kohl, l´Unione europea, il trattato di Maastricht, firmato d´accordo con Craxi ai danni della Thatcher. Sempre soltanto di soldi si trattava, stercus diaboli, materia disprezzabile, che potevano interessare solo gli spiriti di "bancari" come Paolo Baffi e Sarcinelli, civil servant consegnati alla gogna. Per questo c´era la massima sintonia con l´Italietta profonda, quella che a vedere la curva dell´inflazione e i numeri del deficit pensava «e che sarà mai?». Tutto s´aggiusterà. E anche il suo potere personale non era quello che pensavano gli ingenui, non si trattava di una struttura a piramide di cui Andreotti sarebbe stato la sommità. E quando mai: era una rete, in cui ogni nodo agiva, a nome del leader, per proprio conto e nel proprio interesse. Per questo era illusorio pensare che il suo tramonto politico passasse attraverso i processi penali: perché non era pensabile che il "post hoc" configurasse il "propter hoc", istituendo il principio di causalità e quindi identificandolo in tribunale come il mandante dell´omicidio Pecorelli e come il capo implicito della mafia (un individuo addirittura "punciutu", trafitto con uno spillo nel polpastrello secondo il rituale di qualche cosca isolana). Mentre si specchiavano nell´immagine di Giulio Andreotti, gli italiani sentivano così una nota in sintonia con un proprio duplice sentimento: il congenito disprezzo per i partiti e insieme l´attrazione irresistibile per il potere. Perché lo scaltro Andreotti, il "gobbo", la volpe, rappresentava un esorcismo vivente contro le ideologie, nel suo pragmatismo lento ed estenuante, per la propensione a frazionare i massimi sistemi e ridurli a questioncine da affrontare, o da accantonare, una alla volta; nello stesso tempo trattava la politica come un puzzle in cui i tasselli, cioè i partiti, più o meno si equivalevano, senza tante fisime identitarie. La "politica dei due forni" esemplificava il disegno tattico del "divo Giulio", portato a strategia permanente: il Pci serviva a ricattare i socialisti, se questi alzavano troppo la posta. Salvo poi credere di potersi perpetuare nel Caf, Craxi-Andreotti Forlani: il colossale errore di un gattopardo che non seppe credere come talvolta occorra una rivoluzione per restare conservatori. Era l´epoca irripetibile della Prima Repubblica, quando un attrito fra le correnti democristiane faceva barcollare governi ed economie, nel tripudio di nomine alle partecipazioni statali, di negoziati fumosi, di bon mot destinati agli annali di Montecitorio («La Dc farà quadrato», ammonisce De Mita; «Ai quadrati di De Mita manca sempre un lato», ribatte zi´ Giulio). In quel clima, il profilo curvilineo di Andreotti sembra navigare sempre con naturalezza, grazie al suo piccolo cabotaggio, a un lavoro di timone praticato con gesti felpati, a una professionalità affinata dagli anni e dai governi. Ed è soltanto perché le catastrofi avvengono per una sequenza impressionante di coincidenze infauste che il divo Giulio non sale al Quirinale, non salva la Democrazia cristiana, vede dissolversi il suo mondo, perde di vista per sempre, già quindici anni fa, l´Italia modernamente provinciale che era il suo paese: perché Andreotti non finisce mai, ma un´epoca intera, quella sì, all´improvviso finisce. EDMONDO BERSELLI