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 2008  maggio 14 Mercoledì calendario

La Cisgiordania cede il passo, ora la kefyiah è made in China. Il Sole 24 Ore 14 maggio 2008 HEBRON

La Cisgiordania cede il passo, ora la kefyiah è made in China. Il Sole 24 Ore 14 maggio 2008 HEBRON. Dal nostro inviato Ci sarà sempre una kefyiah bianca e nera nello yom al-Nakba, il giorno della Catastrofe. il momento più tragico e importante della narrativa palestinese: a ogni yom Hàatzmàut, il giorno dell’Indipendenza d’Israele, corrisponde quello della disperazione dell’altro. così da 60 anni, senza che la gioia degli uni e il dolore degli altri siano ancora riusciti a ritrovarsi in uno stato d’animo comune più neutro. Ma ogni 10 kefyiah che il 15 maggio verranno esibite per ricordare la tragedia di un popolo, circa otto saranno cinesi: fatte, filate, confezionate e imballate in Cina ed esportate in tutto il mondo, Palestina compresa. Sarà assenza di uno Stato che regoli gli scambi e preservi i beni nazionali; sarà mancanza di speranza dopo tanto tempo speso a lottare, spesso in modo sbagliato, per una libertà che non c’è. Sarà forse solo globalizzazione. Ma per la "Hirbawi Textiles", alla periferia di Hebron, è un massacro. Dei 12 operai d’un tempo ne è rimasto uno solo; e nessuna delle 10 famiglie che lavoravano grazie all’indotto dell’industria delle kefyiah oggi ha più la possibilità di filare e cucire. L’unico vecchio e silenzioso operaio controlla le due macchine rimaste a filare delle 10 che un tempo riempivano di baccano il piccolo opificio familiare. «Per 22 ore al giorno filavano senza sosta», ricorda Yasser Hirbawi, 77 anni, confezionandosi con le mani tremanti una sigaretta di hishi, un’erba della Cisgiordania («Quella di Jenin è la migliore»). «Il momento d’oro è stata la prima Intifada, nel 1989: facevamo 500 kefyiah al giorno. Oggi non ne produciamo più di 12». Yasser Hirbawi sta alla kefyiah bianca e nera a scacchi non meno di quanto la kefyiah stia a Yasser Arafat. Il secondo l’ha resa famosa decidendo di farne la sua divisa. Ma senza Hirbawi che per primo capì la forza di quel simbolo, iniziando una produzione massiccia e in esclusiva, la kefyiah avrebbe continuato ad essere soprattutto la sciarpa invernale dei contadini palestinesi. La lotta non è finita e la kefyiah è ancora un simbolo. Ma quella prodotta da Hirbawi e dal figlio Hesat, 38 anni passati a filare col padre, costa 10 shekel, circa un euro e 80; quella cinese meno di sette. Per quanto non sia autarchico, patriottico e neanche migliore, alla fine vince il prodotto cinese. Così è con le scarpe: le cinesi d’importazione costano 50 shekel, quelle di Hebron non meno di 130; con le lame che tagliano il marmo, con i pezzi di ricambio delle macchine dell’industria tessile della città. Insieme alle kefyiah erano il cuore dell’industria hebronita e l’industria di Hebron il cuore dell’industria palestinese. Tutto finito o quasi. A parte Gaza che ormai è più un caso umanitario che economico, l’epicentro della crisi palestinese è Hebron con una disoccupazione oltre il 40 per cento. Il governatorato della Cisgiordania meridionale garantiva il 33% del Pil palestinese, il 60% dell’industria del marmo, l’80 della produzione di scarpe e pellame. Delle 200 piccole fabbriche d’un tempo, sì e no sono rimasti aperti un paio di calzolai. Ma è difficile dire, fra l’occupazione israeliana e il fattore cinese, quale ne sia la causa principale. « cominciato tutto un decennio fa», spiega Jamad al-Herbawi, consigliere economico del sindaco di Hebron. «Gli industriali della città hanno chiuso le fabbriche, hanno chiesto un visto cinese e sono diventati traders. A Pechino ci sono 300 imprese di Hebron la cui unica vocazione è importare prodotti cinesi. Noi da qui non esportiamo nulla. Il valore aggiunto per noi è zero». Non solo a Hebron: nel 2007 i palestinesi hanno importato per due milioni di dollari dalla Cina. Un ingegnere palestinese esperto di computer costa solo 800 dollari al mese; uno turco 3mila. Ma posto che esista qualcuno disposto a investire in Cisgiordania in information technology, date le circostanze politiche, gli ingegneri palestinesi sono pochi. Abbondano invece gli operai: ma uno di quaggiù ha un salario minimo di 300 dollari, il doppio di quelli che lavorano nelle zone speciali in Giordania ed Egitto. Sessant’anni dopo la Nakba, la Palestina non è ancora entrata nelle carte geografiche ma è già uscita dal mercato. «Non abbiamo sovranità, dunque non abbiamo il potere di regolare e programmare il nostro futuro», si giustifica il consigliere del sindaco di Hebron. Come nella trincea di una battaglia perduta, Yasser Hirbawi piega le sue 12 nuove kefyiah, la produzione di oggi. Ha mai pensato di mettere l’etichetta "made in Palestine"? «No», risponde il vecchio Hirbawi. «Perché dovrei?». Ugo Tramballi