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 2008  maggio 15 Giovedì calendario

Per la prima volta, l’analisi del Dna è stata utilizzata per identificare quali embrioni, dopo la fecondazione in vitro (Ivf), attecchiranno e potranno quindi svilupparsi

Per la prima volta, l’analisi del Dna è stata utilizzata per identificare quali embrioni, dopo la fecondazione in vitro (Ivf), attecchiranno e potranno quindi svilupparsi. La tecnica, applicata prima dell’impianto in utero a cellule di blastocisti (ovvero a un embrione di circa 5 giorni), potrebbe presto permettere l’identificazione di un gruppo di geni determinanti per la formazione di embrioni vitali. David Cram e Gayle Jones, ricercatori del Monash immunology and Stem Cell Laboratories presso la Monash University (Australia), autori della ricerca pubblicata on line su Human Reproduction, credono che questi studi rivoluzioneranno l’Ivf, migliorando i tassi di fecondità e riducendo le gravidanze gemellari. Quando le coppie si sottopongono alla tecnica della fecondazione in vitro, gli ovociti vengono fecondati dallo sperma e fatti sviluppare in cultura fino a che raggiungono lo stadio di blastocisti (stadio di sviluppo dell’embrione in cui comincia la differenziazione cellulare). Nei paesi in cui è permesso dalla legge, prima che le blastocisti vengano inserite nell’utero, deve essere presa la decisione su quali e quanti embrioni impiantare. Ad oggi, però, non esistono metodi oggettivi per differenziare le blastocisti vitali da quelle non vitali, e i medici tendono a decidere sulla base della forma (morfologia) degli embrioni. Le coppie, dal canto loro, tendono a scegliere l’impianto di più embrioni, in modo da aumentare le chance di una gravidanza positiva, anche se questo incrementa la possibilità di gravidanze gemellari, con conseguenti rischi per la madre e per i figli. La ricerca, che ha considerato 25 gravidanze (che hanno portato alla nascita di 37 bambini), ha finora permesso di identificare alcuni geni che sono intervenuti nei processi chiave di sviluppo embrionale nella fase post-impianto, e che si ritrovano poi espressi anche nei neonati. Ma gli studi sono solo all’inizio ed è ancora troppo presto per parlare di applicazioni dal punto di vista clinico.