Corriere della Sera 13 maggio 2008, Angelo Panebianco, 13 maggio 2008
LE DUE SINISTRE INCOMPATIBILI
Corriere della Sera 13 maggio 2008
L’attacco televisivo di Marco Travaglio al presidente del Senato, Renato Schifani, va probabilmente interpretato come l’inizio di un conflitto interno alla sinistra, un episodio che si spiega facendo riferimento alle sue due contrapposte anime e alla lotta che oggi, inevitabilmente, fra esse si apre. La presenza in Parlamento, fino alle ultime elezioni, della sinistra massimalista, aveva per un po’ oscurato ogni altra diversità, aveva spinto molti a pensare che quella fra riformisti e massimalisti fosse l’unica divisione rilevante a sinistra. Non era così.
Scomparsa la sinistra massimalista, torna alla luce un’altra divisione, forse molto più importante: quella fra riformisti e antiberlusconiani. Non nel senso, ovviamente, che i riformisti del centrosinistra non siano avversari di Silvio Berlusconi (lo sono per forza, essendo egli il leader della maggioranza a cui essi si oppongono) ma nel senso che, a differenza degli antiberlusconiani puri, essi non fanno, o non fanno più, dell’antiberlusconismo il fondamento della loro identità politica. Il conflitto fra le due sinistre è reso inevitabile dal fatto che l’antiberlusconismo, nella versione pura e dura, ha permeato per tanto tempo la sinistra: sbarazzarsene di colpo non è possibile. Reduci da mille battaglie, carichi di gloria e cicatrici, gli antiberlusconiani puri e duri non sono disposti a farsi mettere da parte. Un po’ come quei veterani di guerra che rifiutano di consegnare le armi ad armistizio ormai siglato e si danno alla macchia, si dedicano alla guerriglia. Per capire bisogna interrogarsi su che cosa sia stato l’antiberlusconismo per la sinistra italiana, dal 1994 (anno dell’ingresso in politica di Silvio Berlusconi) fino al momento della affermazione di Walter Veltroni come leader del Partito democratico. Nonostante egli l’abbia sconfitta per tre volte, se Berlusconi non fosse esistito, la sinistra avrebbe dovuto inventarlo. Perché? Perché la fine del comunismo ne aveva distrutto l’identità. Prima di allora, la sinistra aveva per lungo tempo creduto di essere «tutto». Scoprì, dolorosamente, di non essere più «niente». Avendo escluso la via della trasformazione del Pci in un normale partito socialdemocratico (la richiesta in tal senso dell’allora sinistra migliorista, degli Emanuele Macaluso e dei Gerardo Chiaromonte, venne rigettata) rimaneva solo un instabile composto, fatto di continuità sotterranee con un passato con cui non si sapeva fare i conti, di radicalismo, di laburismo (fiancheggiamento dei sindacati), di giustizialismo (fiancheggiamento delle procure), il tutto condito con velleità «liberal ».
Il mastice per tenere insieme questo composto e per celare il vuoto culturale lasciato dalla fine del comunismo fu appunto l’antiberlusconismo.
Berlusconi fu, per un lungo periodo, molto di più che un avversario da battere. Fu l’uomo grazie alla cui esistenza la sinistra si potè dare, in una fase di transizione per lei difficilissima, una provvisoria identità.
Tutti i fantasmi evocati per quasi un quindicennio (il mito dell’uomo nero, del nemico assoluto, il mito della superiorità antropologica della sinistra rispetto a una destra moralmente corrotta che si era scelta Berlusconi), fantasmi che ricorrevano continuamente nelle conversazioni quotidiane, che altro erano se non la spia del fatto che tanta parte della sinistra, in quegli anni, preferiva parlare di Berlusconi (del quale, peraltro, sperava di potersi sbarazzare per via giudiziaria) piuttosto che guardarsi allo specchio, spaventata dalla possibilità di non scorgervi nulla? Dopo essersi dispiegato con la massima forza all’epoca del secondo governo Berlusconi (2001-2006), l’antiberlusconismo è stato anche il solo collante della coalizione che ha portato Prodi al governo nel 2006. Si è visto come è finita. Cercando di disfarsene, di costruire su altre basi l’identità del Partito democratico Veltroni ha dato davvero l’avvio a un grande cambiamento. Lo ha fatto peraltro, in modo non del tutto coerente: ad esempio, non sono mai state spiegate fino in fondo le ragioni dello strappo alla regola dello «andare da soli», le ragioni dell’alleanza con Di Pietro (il simbolo più illustre dell’antiberlusconismo militante).
C’è un’incompatibilità evidente fra i raziocinanti e i viscerali: da una parte, una sinistra tesa a costruire una piattaforma riformista sperabilmente capace, prima o poi, di intercettare le domande di modernizzazione che salgono dai settori più dinamici del Paese (oggi, quasi compattamente, votanti per il centrodestra), la sinistra del governo-ombra, dell’opposizione responsabile e, quando occorre, dialogante; dall’altra parte, una sinistra infuriata della quale non si capisce mai se interpreta il centrodestra come una riedizione del fascismo oppure se lo liquida come un fenomeno di criminalità comune. Gli antiberlusconiani si rivolgono alla pancia degli elettori e dei militanti di sinistra. I riformisti si rivolgono alle menti. Il conflitto fra pancia e mente deciderà il destino futuro della sinistra, la sua possibilità o meno di tornare ad essere politicamente competitiva.
Angelo Panebianco