Claudio Sabelli-Fioretti, La Stampa 14/5/2008 la repubblica 15 maggio 2008, 14 maggio 2008
DIBATTITO D’AVANZO-TRAVAGLIO (DARIA, ATTENTA ALL’UNITA’)
GIUSEPPE D’AVANZO
Repubblica 13/5/2008
utile ragionare sul «caso Schifani». E – ancora una volta – sul giornalismo d´informazione, sulle "agenzie del risentimento", sull´antipolitica. Marco Travaglio sostiene, per dirne una, che fin «dagli anni Novanta, Renato Schifani ha intrattenuto rapporti con Nino Mandalà il futuro boss di Villabate» e protesta: «I fascistelli di destra, di sinistra e di centro che mi attaccano, ancora non hanno detto che cosa c´era di falso in quello che ho detto». Gli appare sufficiente quel rapporto lontano nel tempo – non si sa quanto consapevole (il legame tra i due risale al 1979; soltanto nel 1998, più o meno venti anni dopo, quel Mandalà viene accusato di mafia) – per persuadere un ascoltatore innocente che il presidente del Senato sia in odore di mafia. Che il nostro Paese, anche nelle sue istituzioni più prestigiose, sia destinato a essere governato (sia governato) da uomini collusi con Cosa Nostra. Se si ricordano queste circostanze (emergono da atti giudiziari) è per dimostrare quanto possono essere sfuggenti e sdrucciolevoli "i fatti" quando sono proposti a un lettore inconsapevole senza contesto, senza approfondimento e un autonomo lavoro di ricerca. E´ un metodo di lavoro che soltanto abusivamente si definisce «giornalismo d´informazione». Le lontane «amicizie pericolose» di Schifani furono raccontate per la prima volta, e ripetutamente, da Repubblica nel 2002 (da Enrico Bellavia). In quell´anno furono riprese dall´Espresso (da Franco Giustolisi e Marco Lillo). Nel 2004 le si potevano leggere in «Voglia di mafia» (di Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Carocci). Tre anni dopo in «I complici» (di Lirio Abbate e Peter Gomez, Fazi). Se dei legami dubbi di Schifani non si è più parlato non è per ottusità, opportunismo o codardia né, come dice spensieratamente Travaglio a un sempre sorridente Fabio Fazio, perché l´agenda delle notizie è dettata dalla politica ai giornali (a tutti i giornali?).
Non se n´è più parlato perché un lavoro di ricerca indipendente non ha offerto alcun – ulteriore e decisivo – elemento di verità. Siamo fermi al punto di partenza. Quasi trent´anni fa Schifani è stato in società con un tipo che, nel 1994, fonda un circolo di Forza Italia a Villabate e, quattro anni dopo, viene processato come mafioso.
I filosofi ( Bernard Williams, ad esempio) spiegano che la verità offre due differenti virtù: la sincerità e la precisione. La sincerità implica semplicemente che le persone dicano ciò che credono sia vero. Vale a dire, ciò che credono. La precisione implica cura, affidabilità, ricerca nello scovare la verità, nel credere a essa. Il "giornalismo dei fatti" ha un metodo condiviso per acquisire la verità possibile. Contesti, nessi rigorosi, fonti plurime e verificate e anche così, più che la verità, spesso, si riesce a capire soltanto dov´è la menzogna e, quando va bene, si può ripetere con Camus: «Non abbiamo mentito» (lo ha ricordato recentemente Claudio Magris).
Si può allora dire che Travaglio è sincero con quel dice e insincero con chi lo ascolta. Dice quel che crede e bluffa sulla completezza dei «fatti» che dovrebbero sostenere le sue convinzioni. Non è giornalismo d´informazione, come si autocertifica. E´, nella peggiore tradizione italiana, giornalismo d´opinione che mai si dichiara correttamente tale al lettore/ascoltatore. Nella radicalità dei conflitti politici, questo tipo di scaltra informazione veste i panni dell´asettico, neutrale watchdog – di "cane da guardia" dei poteri («Io racconto solo fatti») – per nascondere, senza mai svelarla al lettore, la sua partigianeria anche quando consapevolmente presenta come "fatti" ciò che "fatti", nella loro ambiguità, non possono ragionevolmente essere considerati (a meno di non considerare "fatti" quel che potrebbero accusare più di d´un malcapitato).
L´operazione è ancora più insidiosa quando si eleva a routine. Diventata abitudine e criterio, avvelena costantemente il metabolismo sociale nutrendolo con un risentimento che frantuma ogni legame pubblico e civismo come se non ci fosse più alcuna possibilità di tenere insieme interessi, destini, futuro («Se anche la seconda carica dello Stato è oggi un mafioso…»). E´ un metodo di lavoro che non informa il lettore, lo manipola, lo confonde. E´ un sistema che indebolisce le istituzioni. Che attribuisce abitualmente all´avversario di turno (sono a destra come a sinistra, li si sceglie a mano libera) un´abusiva occupazione del potere e un´opacità morale. Che propone ai suoi innocenti ascoltatori di condividere impotenza, frustrazione, rancore. Lascia le cose come stanno perché non rimuove alcun problema e pregiudica ogni soluzione. Queste "agenzie del risentimento" lavorano a un cattivo giornalismo. Ne fanno una malattia della democrazia e non una risorsa. Si fanno pratica scandalistica e proficuamente commerciale alle spalle di una energica aspettativa sociale che chiede ai poteri di recuperare in élite integrity, in competenza, in decisione. Trasformano in qualunquismo antipolitico una sana, urgente, necessaria critica alla classe politico-istituzionale.
Nel «caso Schifani» non si può stare dalla parte di nessuno degli antagonisti. Non con Travaglio che confonde le carte ed è insincero con i tanti che, in buona fede, gli concedono fiducia. Non con Schifani che, dalle inchieste del 2002, ha sempre preferito tacere sul quel suo passato sconsiderato. Non con chi – nell´opposizione – ha espresso al presidente del Senato solidarietà a scatola chiusa. Non con la Rai, incapace di definire e di far rispettare un metodo di lavoro che, nel rispetto dei doveri del servizio pubblico, incroci libertà e responsabilità. In questa storia, si può stare soltanto con i lettori/spettatori che meritano, a fronte delle miopie, opacità, errori, inadeguatezze della classe politica, un´informazione almeno esplicita nel metodo e trasparente nelle intenzioni.
MARCO TRAVAGLIO
Repubblica 14/5/2008
MARCO TRAVAGLIO
Caro direttore, ringrazio D´Avanzo per la lezione di giornalismo che mi ha impartito su Repubblica di ieri. Si impara sempre qualcosa, nella vita.
Ma, per quanto mi riguarda, temo di essere ormai irrecuperabile, avendo lavorato per cattivi maestri come Montanelli, Biagi, Rinaldi, Furio Colombo e altri. I quali, evidentemente, non mi ritenevano un pubblico mentitore, un truccatore di carte che «bluffa», «avvelena il metabolismo sociale» e «indebolisce le istituzioni», un manipolatore di lettori «inconsapevoli», quale invece mi ritiene D´Avanzo. Sabato sera sono stato invitato a «Che tempo che fa» per presentare il mio ultimo libro, «Se li conosci li eviti», scritto con Peter Gomez, che in 45 giorni non ha avuto alcun preannuncio di querela. E mi sono limitato a rammentare un fatto vero a proposito di uno dei tanti politici citati nel libro: e cioè che, raccontando vita e opere di Renato Schifani al momento della sua elezione a presidente del Senato, nessun quotidiano (tranne l´Unità e, paradossalmente, Il Giornale di Berlusconi) ha ricordato i suoi rapporti con persone poi condannate per mafia, come Nino Mandalà e Benny D´Agostino (ho detto testualmente: «Schifani ha avuto delle amicizie con dei mafiosi. rapporti con signori che sono poi stati condannati per mafia»; la frase «anche la seconda carica dello Stato è oggi un mafioso», falsamente attribuitami da D´Avanzo, non l´ho mai detta né pensata). Quei rapporti, contrariamente a quanto scrive D´Avanzo, sono tutt´altro che «lontani nel tempo», visto che ancora a metà degli anni 90 Schifani fu ingaggiato, come consulente per l´urbanistica e il piano regolatore, dal Comune di Villabate retto da uomini legati al boss Mandalà e di lì a poco sciolto due volte per mafia. Rapporti di nessuna rilevanza penale, ma di grande rilievo politico-morale, visto che la mafia non dimentica, ha la memoria lunghissima e spesso usa le sue amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso. In qualunque altro paese, casomai capitasse che il titolare di certi rapporti ascenda alla seconda carica dello Stato, tutti i giornali e le tv gli rammenterebbero quei rapporti: per questo, negli altri paesi, il titolare di certi rapporti difficilmente ascende ai vertici dello Stato. Che cosa c´entri tutto questo con le «agenzie del risentimento» e il «qualunquismo antipolitico» di cui parla D´Avanzo, mi sfugge.
Secondo lui i giornali, all´elezione di Schifani a presidente del Senato, non hanno più parlato di quei rapporti perché nel frattempo non s´era scoperto nulla di nuovo. Strano: non c´era nulla di nuovo neppure sul riporto di Schifani, eppure tutti i giornali l´hanno doviziosamente rammentato. I lettori giudicheranno se sia più importante ricordare il riporto, oppure il rapporto con D´Agostino e Mandalà (che poi, un po´ contraddittoriamente, lo stesso D´Avanzo definisce «sconsiderato»). Ora che – pare – Schifani ha deciso di querelarmi, un giudice deciderà se quel che ho detto è vero o non è vero.
Almeno in tribunale, si bada ai fatti e le chiacchiere stanno a zero: o hai detto il vero o hai detto il falso. Io sono certo di avere detto il vero, e tra l´altro solo una minima parte. Oltretutto c´è già un precedente specifico: quando, per primo, Marco Lillo rivelò queste cose sull´Espresso nel 2002, Schifani lo denunciò. Ma la denuncia venne archiviata nel 2007 perché – scrive il giudice – «l´articolo si presenta sostanzialmente veritiero». Approfitto di questo spazio per ringraziare i tanti colleghi e lettori (anche di Repubblica) che in questi giorni difficili mi hanno testimoniato solidarietà. Tenterò, pur con tutti i miei limiti, di continuare a non deluderli.
GIUSEPPE D’AVANZO
REPUBBLICA 14/5/2008
Non so che cosa davvero pensassero dell´allievo gli eccellenti maestri di Marco Travaglio (però, che irriconoscenza trascurare le istruzioni del direttore de il Borghese). Il buon senso mi suggerisce, tuttavia, che almeno una volta Montanelli, Biagi, Rinaldi, forse addirittura Furio Colombo, gli abbiano raccomandato di maneggiare con cura il "vero" e il "falso": «qualifiche fluide e manipolabili» come insegna un altro maestro, Franco Cordero. Di questo si parla, infatti, cari lettori – che siate o meno ammiratori di Travaglio; che siate entusiasti, incazzatissimi contro ogni rilievo che gli si può opporre o soltanto curiosi di capire.
Che cos´è un "fatto", dunque? Un "fatto" ci indica sempre una verità? O l´apparente evidenza di un "fatto" ci deve rendere guardinghi, più prudenti perché può indurci in errore? Non è questo l´esercizio indispensabile del giornalismo che, «piantato nel mezzo delle libere istituzioni», le può corrompere o, al contrario, proteggere? Ancora oggi Travaglio («Io racconto solo fatti») si confonde e confonde i suoi lettori. Sostenere: «Ancora a metà degli anni 90, Schifani fu ingaggiato dal Comune di Villabate, retto da uomini legato al boss Mandalà di lì a poco sciolto due volte per mafia» indica una traccia di lavoro e non una conclusione. Mandalà (come Travaglio sa) sarà accusato di mafia soltanto nel 1998 (dopo «la metà degli Anni Novanta», dunque) e soltanto «di lì a poco» (appunto) il comune di Villabate sarà sciolto. Se ne può ricavare un giudizio? Temo di no. Certo, nasce un interrogativo che dovrebbe convincere Travaglio ad abbandonare, per qualche tempo, le piazze del Vaffanculo, il salotto di Annozero, i teatri plaudenti e andarsene in Sicilia ad approfondire il solco già aperto pazientemente dalle inchieste di Repubblica (Bellavia, Palazzolo) e l´Espresso (Giustolisi, Lillo) e che, al di là di quel che è stato raccontato, non hanno offerto nel tempo ulteriori novità. E´ l´impegno che Travaglio trascura. Il nostro amico sceglie un comodo, stortissimo espediente. Si disinteressa del "vero" e del "falso". Afferra un "fatto" controverso (ne è consapevole, perché non è fesso). Con la complicità della potenza della tv – e dell´impotenza della Rai, di un inerme Fazio – lo getta in faccia agli spettatori lasciandosi dietro una secrezione velenosa che lascia credere: «Anche la seconda carica dello Stato è un mafioso…». Basta leggere i blog per rendersene conto. Anche se Travaglio non l´ha mai detta, quella frase, è l´opinione che voleva creare. Se non fosse un tartufo, lo ammetterebbe.
Discutiamo di questo metodo, cari lettori. Del «metodo Travaglio» e delle "agenzie del risentimento". Di una pratica giornalistica che, con "fatti" ambigui e dubbi, manipola cinicamente il lettore/spettatore. Ne alimenta la collera. Ne distorce la giustificatissima rabbia per la malapolitica. E´ un paradigma professionale che, sulla spinta di motivazioni esclusivamente commerciali (non civiche, non professionali, non politiche), può distruggere chiunque abbia la sventura di essere scelto come target (gli obiettivi vengono scelti con cura tra i più esposti, a destra come a sinistra). Farò un esempio che renderà, forse, più chiaro quanto può essere letale questo metodo.
8 agosto del 2002. Marco telefona a Pippo. Gli chiede di occuparsi dei «cuscini». Marco e Pippo sono in vacanza insieme, concludono per approssimazione gli investigatori di Palermo. Che, durante le indagini, trovano un´ambigua conferma di quella villeggiatura comune. Prova maligna perché intenzionale e non indipendente. Fonte, l´avvocato di Michele Aiello. Il legale dice di aver saputo dal suo assistito che, su richiesta di Pippo, Aiello ha pagato l´albergo a Marco. Forse, dicono gli investigatori, un residence nei dintorni di Trabia.
Michele Aiello, ingegnere, fortunato impresario della sanità siciliana, protetto dal governatore Totò Cuffaro (che, per averlo aiutato, beccherà 5 anni in primo grado), è stato condannato a 14 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Pippo è Giuseppe Ciuro, sottufficiale di polizia giudiziaria, condannato a 4 anni e 6 mesi per aver favorito Michele Aiello e aver rivelato segreti d´ufficio utili a favorire la latitanza di Bernardo Provenzano. Marco è Marco Travaglio.
Ditemi ora chi può essere tanto grossolano o vile da attribuire all´integrità di Marco Travaglio un´ombra, una colpa, addirittura un accordo fraudolento con il mafioso e il suo complice? Davvero qualcuno, tra i suoi fiduciosi lettori o tra i suoi antipatizzanti, può credere che Travaglio debba delle spiegazioni soltanto perché ha avuto la malasorte di farsi piacere un tipo (Giuseppe Ciuro) che soltanto dopo si scoprirà essere un infedele manutengolo?
Nessuno, che sia in buona fede, può farlo. Eppure un´«agenzia del risentimento» potrebbe metter su un pirotecnico spettacolino con poca spesa ricordando, per dire, che «la mafia ha la memoria lunghissima e spesso usa le amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso» . Basta dare per scontato il "fatto", che ci fosse davvero una consapevole amicizia mafiosa: proprio quel che deve essere dimostrato ragionevolmente da un attento lavoro di cronaca.
Cari lettori, anche Travaglio può essere travolto dal «metodo Travaglio». Travaglio – temo – non ha alcun interesse a raccontarvelo (ecco la sua insincerità) e io penso (ripeto) che la sana, necessaria critica alla classe politico-istituzionale meriti onesto giornalismo e fiducia nel destino comune. Non un qualunquismo antipolitico alimentato, per interesse particolare, da un linciaggio continuo e irrefrenabile che può contaminare la credibilità di ogni istituzione e la rispettabilità di chiunque.
IL GIORNALISMO E IL CASO SCHIFANI. La Repubblica 15 maggio 2008
Caro direttore, D´Avanzo è liberissimo di ritenere che i cittadini non debbano sapere chi è il presidente del Senato. Io invece penso che debbano sapere tutto, che sia nostro dovere informarli del fatto che stava in società con due personaggi poi condannati per mafia, che si occupava di urbanistica come consulente del comune di Villabate, controllato dal clan Mandalà, anche dopo l´arresto del figlio del boss e subito prima dello scioglimento per mafia.
Perciò l´ho scritto (dopo valorosi colleghi come Lillo, Abbate e Gomez) e l´ho detto in tv presentando il mio libro. Anche perché la Procura di Palermo sta ancora vagliando le dichiarazioni rese nel 2007 dal pentito Francesco Campanella, già presidente del consiglio comunale di Villabate e uomo del clan Mandalà, sul piano regolatore che, a suo dire, il boss aveva «concordato con La Loggia e Schifani» (Ansa, 10 febbraio 2007). Ciò che non è consentito a nessuno, nemmeno a D´Avanzo, è imbastire una ripugnante equazione tra le frequentazioni palermitane del palermitano Schifani e una calunnia ai miei danni che – scopro ora – sarebbe stata diffusa via telefono da un misterioso avvocato: e cioè che l´imprenditore Michele Aiello, poi condannato per mafia in primo grado, mi avrebbe pagato un albergo o un residence nei dintorni di Trabia. La circostanza è totalmente falsa e chi l´ha detta e diffusa ne risponderà in tribunale.
Potrei dunque liquidare la cosa con un sorriso e un´alzata di spalle, limitandomi a una denuncia per diffamazione e rinviando le spiegazioni a quando diventerò presidente del Senato. Ma siccome non ho nulla da nascondere e D´Avanzo sta cercando – con miseri risultati – di minare la fiducia dei lettori nella mia onorabilità personale e nella mia correttezza professionale, eccomi qui pronto a denudarmi. Se questo maestro di giornalismo avesse svolto una minima verifica prima di scrivere quelle infamie, magari rivolgendosi all´albergo o dandomi un colpo di telefono, avrebbe scoperto che: 1) non ho mai incontrato, visto, sentito, inteso nominare questo Aiello fino al giorno in cui fu arrestato (e comunque, non essendo io siciliano, il suo nome non mi avrebbe detto nulla); 2) ho sempre pagato le mie vacanze fino all´ultimo centesimo (con carta di credito, D´Avanzo può controllare); c) ho conosciuto il maresciallo Giuseppe Ciuro a Palermo quando lavorava alla polizia giudiziaria antimafia (aveva pure collaborato con Falcone). Mi segnalò un hotel di amici suoi a Trabia e un residence ad Altavilla dove anche lui affittava un villino. Il primo anno trascorsi due settimane nell´albergo con la mia famiglia, e al momento di pagare il conto mi accorsi che la cifra era il doppio della tariffa pattuita: pagai comunque quella somma per me esorbitante e chiesi notizie a Ciuro, il quale mi spiegò che c´era stato un equivoco e che sarebbe stato presto sistemato (cosa che poi non avvenne). L´anno seguente affittai per una settimana un bungalow ad Altavilla, pagando ovviamente la pigione al proprietario. Ma i precedenti affittuari si eran portati via tutto, così i vicini, compresa la signora Ciuro, ci prestarono un paio di cuscini, stoviglie, pentole e una caffettiera. Di qui la telefonata in cui parlo a Ciuro di «cuscini». Ecco tutto. Che c´entri tutto questo con le amicizie mafiose di Schifani, francamente mi sfugge. Qualcuno può seriamente pensare che, come insinua D´Avanzo, quella vacanza fantozziana potrebbe rendermi anche solo teoricamente ricattabile da parte della mafia o addirittura protagonista di «una consapevole amicizia mafiosa»? Diversamente da Schifani, non solo sono un privato cittadino. Non solo non sono mai stato socio né consulente di personaggi e di comuni poi risultati mafiosi. Ma non ho mai visto né conosciuto mafiosi, né prima né dopo la loro condanna. Chiaro? Se poi questo è il prezzo che si deve pagare, in Italia, per raccontare la verità sul presidente del Senato, sono felice di averlo pagato.
Ps. Su una sola cosa D´Avanzo ha ragione. Tra i miei ex direttori, ho dimenticato quello del «Borghese»: Daniele Vimercati. Era uno splendido e libero giornalista. Purtroppo non c´è più, l´ha portato via a 43 anni una leucemia fulminante. Mi manca molto.
MARCO TRAVAGLIO
Nessuno ha mai messo in dubbio l´onorabilità di Travaglio. Nessuno ha voluto sollevare una noiosa e irrilevante polemica personale. Si è voluto soltanto ragionare senza ipocrisie su un metodo giornalistico che, con niente o poco, può distruggere la reputazione di chiunque. Era un memento a Travaglio e a noi stessi ad usare con prudenza, armati di niente o poco, la parola «verità» (evocata, purtroppo, anche oggi). E prima di mettere punto: ma davvero c´è qualcuno che, in buona fede, può pensare che Repubblica faccia sconti alla mafia e alle sue collusioni con i poteri?
(g.d´a.)