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 2008  maggio 03 Sabato calendario

Petrolio, è la fine di un mondo. Il Sole 24 Ore 3 maggio 2008 PARIGI. Dal nostro inviato Nulla sarà più come prima

Petrolio, è la fine di un mondo. Il Sole 24 Ore 3 maggio 2008 PARIGI. Dal nostro inviato Nulla sarà più come prima. Cinque parole che sono a lungo risuonate come un mesto ritornello, a partire dall’11 settembre 2001: in un sol giorno, insieme alle Torri Gemelle, erano crollate le certezze della geopolitica. Ma non tutti i cambiamenti radicali arrivano nell’arco di una sola giornata seminale. «Nulla sarà più come prima», sentenzia Fatih Birol, capo economista dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), l’organizzazione fondata dall’Ocse nel 1974, all’indomani della prima crisi petrolifera. «Quasi senza accorgersene, siamo entrati in un nuovo ordine energetico mondiale». In poche parole: non solo il prezzo del petrolio non tornerà mai più laddove era stato per decenni – in quella soglia felice fra i 10 e i 30 dollari al barile – ma una lunga serie di implicazioni geologiche, geopolitiche e geoeconomiche pare destinata a rimescolare le carte del sistema energetico che fa girare il mondo. «Dal lato della domanda - spiega Birol, seduto nel suo ufficio parigino, a un tiro di fionda dalla Tour Eiffel - Cina, India e i Paesi del Medio Oriente rappresentano l’80% nella crescita dei consumi di petrolio. Il risultato è che la sensibilità dei prezzi è cambiata radicalmente: ai tempi del primo shock petrolifero erano saliti di 30 dollari innescando un calo del 3% nei consumi. Nel ’79, salirono di 33 dollari e la domanda scese del 2,5 per cento. Fra il 2004 e il 2006, il barile è salito di 35 dollari, ma anche la domanda è salita del 4 per cento». Per questa "prima" mondiale, Birol offre tre motivazioni. Numero uno: «Cina, India e Medio Oriente sussidiano i consumi di petrolio per una cifra complessiva di 50 miliardi di dollari all’anno: se il prezzo sale, i loro consumatori non se ne accorgono». Due: «In quelle tre aree, la crescita economica sostiene la crescita dei salari». Tre: «Ai tempi dei due shock, il petrolio si usava anche per il riscaldamento e la generazione elettrica. Ora si usa quasi esclusivamente per i trasporti, e non è possibile sostituirlo in fretta». Ma a completare il quadro ci sono poi i cambiamenti, forse più drammatici, sul lato dell’offerta. «Le compagnie petrolifere nazionali, quelle in mano ad Arabia Saudita, Iran o Venezuela, sono le nuove protagoniste. E le compagnie internazionali, a cominciare dalle cinque major, sono in seria difficoltà con le risorse. Le riserve nel Mare del Nord e nel Golfo del Messico stanno declinando a vista d’occhio e non hanno accesso ai giacimenti più importanti. Se niente cambia, Arabia Saudita, Iran, Iraq e Kuwait, gli unici che possono aumentare la produzione, avranno ancora più potere sul mercato». E non solo su quello. La morale è semplice: «I prezzi del petrolio saliranno ancora, anche se è impossibile dire di quanto». L’Iran ad esempio potrebbe aumentare la produzione, «se solo avesse investito di più e se avesse avuto accesso alle migliori tecnologie». Ma ci sono casi anche come quello del Qatar, oggi primo produttore di gas liquefatto, «che ha appena detto di non voler incrementare la produzione: per una popolazione di appena 800mila persone, i ricavi sono già troppo elevati». «In altre parole - osserva il capoeconomista dell’Aie, nato in Turchia 50 anni fa - siamo davanti al difficile matrimonio fra una giovane domanda e un’anziana offerta». E intanto, gli investimenti scarseggiano. Un po’, anche perché i Paesi del Golfo temono che la futura legislazione internazionale sulle emissioni di anidride carbonica finisca per ridurre i consumi. «Sì, è vero - risponde Birol - ma non ne hanno motivo: secondo i miei calcoli, anche se i Paesi ricchi si buttassero sul nucleare, sulle rinnovabili e sull’efficienza energetica, da qui al 2030 l’Opec sarebbe comunque chiamata a produrre 11 milioni di barili al giorno in più di oggi». Di fatto, con l’ultimo World Energy Outlook, il monumentale rapporto annuale curato e diretto da Birol, l’Aie ha già ammonito il mondo: da qui al 2030, la produzione di petrolio sarà incapace di tenere il passo con la domanda. «Per risolvere il problema, bisognerebbe investire subito migliaia di miliardi di dollari, ma non sta accadendo. Da qui al 2015 - rincara lui stesso - potremo facilmente assistere a interruzioni nelle forniture». Il viatico per un terzo shock petrolifero. «Siamo stati chiari nel nostro messaggio ai Governi: attuate delle politiche per rallentare la domanda e trovate il modo di ridurre i consumi, come nuove sorgenti di energia, programmi per il trasporto pubblico di massa e così via». Peccato che non sia successo nulla. « vero, credevo che gli alti prezzi del barile avrebbero suonato la sveglia. Invece, questo silenzio mi sorprende – commenta Birol – perché dà l’impressione che i Governi credano che i cambiamenti nel mercato petrolifero siano passeggeri. In verità, come dicevo, sono profondi e strutturali». Così profondi che anche la storica alleanza fra Usa e Arabia Saudita - il patto che ha regolato gli equilibri geopolitici dal Dopoguerra a oggi - sembra dare segni di logoramento. Perché dal 2004 Riad ha abbandonato il ruolo di swing producer, di "produttore cuscinetto", consentendo ai prezzi di schizzare in alto? «C’è chi dice che quei rapporti siano cambiati dopo l’11 settembre e soprattutto dopo l’invasione dell’Iraq, ma è difficile provarlo», risponde Birol con diplomazia. Sì, scusi, ma non è che ci saranno anche ragioni geologiche, come sostengono altri? Nel 1985 l’Iraq raddoppiò le stime sulle proprie riserve, imitato due anni dopo da tutti i Paesi dell’Opec. Da allora, l’Arabia Saudita - pur producendo milioni di barili al giorno - dichiara sempre le stesse riserve: 263 miliardi di barili. Lei crede che siano cifre attendibili? Qui Birol sorride, andando appena un po’ oltre la soglia della diplomazia. «Posso dirle che il prossimo World Energy Outlook sarà proprio dedicato a questo – anticipa Birol ”. Stiamo esaminando nel dettaglio 400 giacimenti, che rappresentano i tre quarti dell’attuale produzione mondiale, raccogliendo dati da tutte le fonti possibili. Per la prima volta nella storia, daremo un’indicazione attendibile, certamente non perfetta, ma che darà un grande contributo alla trasparenza sulla materia prima più importante del mondo». L’appuntamento con il rapporto, gravido di possibili sorprese, è fissato a Londra, per il 12 novembre. Il nuovo ordine energetico mondiale implica anche che bisogna trovare alternative al petrolio. «Il che, almeno per i prossimi 20 o 25 anni, appare come una missione impossibile. il nostro tallone d’Achille: senza petrolio, resteremmo paralizzati. Nessuno ha più tempo da perdere. A cominciare dalle compagnie multinazionali». Che intende dire? Ha forse ragione la famiglia Rockefeller – fondatrice dell’antica Standard Oil e tutt’oggi azionista della discendente ExxonMobil – che ha appena criticato l’azienda di Houston perché non guarda abbastanza al futuro post-petrolio? «Dico solo che le major stanno ancora rastrellando buoni profitti. Ma se non fanno qualcosa per assicurarsi un futuro, nel giro di cinque anni saranno in crisi. Il declino delle loro riserve è inesorabile, così come è da tempo negativo il rapporto fra le loro risorse disponibili e la scoperta di nuove. Devono cambiare strategia: sviluppare le fonti rinnovabili, diventare società tecnologiche di servizio energetico. Oppure fondersi o scomparire». sicuro che non abbiano alternative? «Beh, l’alternativa sarebbe stringere nuovi rapporti di joint venture con le compagnie nazionali», di Arabia Saudita, Iran, Russia o Venezuela. «Al momento, questo appare come un esito improbabile. E, in ogni caso, le condizioni economiche non saranno più quelle di una volta». Benvenuti nel nuovo ordine energetico mondiale. Il quale, siccome nulla sarà più come prima, rischia perfino di essere un po’ troppo disordinato. Marco Magrini La fragilità del pianeta si chiama greggio. Il Sole 24 Ore 8 maggio 2008 OXFORD. Dal nostro inviato Tutti i giorni alle otto e mezza in punto, al terzo piano di una palazzina in Alfred street, nel cuore di Oxford, una quindicina di persone si siede intorno a un tavolo per fare il punto della situazione. Per l’esattezza, la situazione del mondo. «Con la vittoria in Pennsylvania, Hillary Clinton ha almeno tamponato la falla dei fondi a sua disposizione», argomenta un distinto signore in giacca e cravatta. «Il Mozambico ha il 10% del carbone del mondo, ma sta esportando solo il 2%», rammenta un tizio altrettanto attempato, ma col physique du rôle di un pittore, o di un chitarrista rock. «I cinesi sono convinti di essere circondati da popoli a loro ostili e questo acuisce i problemi del Tibet», assicura un giovane coi tratti somatici orientali. Commenti che suonano autorevoli e fondati. E ne hanno ben donde: quasi tutti i partecipanti sono professori e ricercatori dell’Università di Oxford e ognuno di loro, a turno, porta a quel tavolo tutto il bagaglio della propria esperienza accademica. E sono solo parte di una rete di oltre mille esperti di tutto il mondo, che costituisce il patrimonio di intelligence a disposizione di Oxford Analytica, una società di consulenza geopolitica che sforna report per i propri clienti. Fra i quali si contano decine di Governi (inclusi quelli di Stati Uniti, Regno Unito e Italia), un vasto numero di società multinazionali (da ExxonMobil a General Electric, da Merrill Lynch a Colgate) e di organismi internazionali (Nazioni Unite, Banca mondiale, Fondo monetario). «Il mondo di oggi è frutto di un’incessante competizione fra poteri, quasi una competizione fra diverse ansietà – osserva Graham Hutchings, il direttore delle pubblicazioni – e i ritmi del cambiamento sono senza precedenti nella storia». Sapere è potere, si direbbe ai giorni nostri. E, negli ultimi anni, Oxford Analytica ha correttamente anticipato alcuni eventi tutt’altro che marginali. «Ad esempio – racconta Hutchings – abbiamo previsto il default del debito argentino, la difficile tenuta delle istituzioni irachene e in qualche modo abbiamo anche previsto la crisi dei mutui subprime americani». E siccome le cattive notizie sono, ahinoi, più determinanti di quelle buone, la società di Oxford tiene giornalmente sotto osservazione i grandi rischi del mondo. In poche parole, si tratta di una matrice (con tanto di procedimento brevettato) che viene riaggiustata sulla base delle notizie, o delle indiscrezioni, che arrivano quotidianamente sul tavolo di Oxford Analytica. Al primo posto, in una lista di 21 eventi, ci sono le ostilità militari fra Cina e Taiwan che comporterebbero un intervento americano e quindi un possibile conflitto fra le due superpotenze d’inizio secolo. All’ultimo, c’è un ritorno alla conflittualità nei Balcani. Ma il fatto saliente è che almeno sette di questi rischi globali portano con sé l’effetto collaterale di uno shock al sistema energetico internazionale. «Un attacco militare americano all’Iran – commenta Mike Wood, curatore dell’indice, battezzato Global stress point matrix – avrebbe effetti sull’output petrolifero. Così come il crollo delle istituzioni irachene, un taglio "politico" alla produzione di idrocarburi in Sudamerica, una drastica interruzione delle forniture dalla Nigeria o il rischio di disordini in Asia Centrale (nelle ex Repubbliche sovietiche che in questi anni hanno aumentato le esportazioni di gas e petrolio), potrebbero tutti avere effetti negativi capaci di riverberarsi in tutto il mondo». A questa lista, Oxford Analytica aggiunge anche la possibilità di un terzo shock dei prezzi petroliferi e la futura legislazione internazionale sulle emissioni di anidride carbonica, che potrebbe avere un impatto negativo sui conti delle aziende e magari degli Stati. Nel nuovo ordine energetico mondiale, i margini per aumentare la produzione di petrolio sono minimi, per non dire inesistenti. «Potenzialmente – conferma Hutchings – stiamo entrando in un periodo di alti rischi energetici, dove la frattura può arrivare da una scarsità fisica di petrolio, innescata da uno qualsiasi di quegli eventi». Per la verità, oltre alla classifica in 21 punti, Oxford Analytica tiene sotto osservazione anche una lista secondaria di rischi globali, dove spiccano altri potenziali punti di rottura del sistema energetico: la caduta della famiglia reale saudita (non implausibile, e ad alto impatto) e l’esclusione delle compagnie straniere dalle risorse di idrocarburi del Kazakistan (improbabile nel breve periodo, ma non nel lungo). David Young, l’americano che ha fondato Oxford Analytica nel 1975, rincara la dose. «E se Chavez decidesse davvero di diventare il nuovo Castro, nazionalizzando interamente il petrolio venezuelano? E se la Russia decidesse di chiudere i rubinetti? I combustibili fossili sono sempre più scarsi e nulla è del tutto inverosimile. Vede, il nostro mestiere non è fare gli allarmisti. Ma è evidente che l’attuale interdipendenza del mondo moltiplica i rischi globali». E i clienti di Oxford Analytica, siano Governi o aziende, hanno la cronica necessità di vedere e prevedere. Neppure Young non avrebbe mai previsto di fare questo mestiere. Già assistente di Henry Kissinger, faceva parte di quel gruppo diventato celebre come i plumbers – gli idraulici – chiamati dal presidente Nixon ad accertare la sorgente delle "perdite" di informazioni che uscivano dalla Casa Bianca e apparivano sui giornali. Il celebre caso Watergate origina da lì. E Young, dopo che il Senato gli risparmiò un’indagine a suo carico, pensò bene di trasferirsi a Oxford. Cominciando, da lì, la sua nuova avventura. Certo, un conflitto armato fra Cina e Taiwan non è da escludersi categoricamente. Per fortuna, la matrice del rischio globale dice che le tensioni, dopo le ultime elezioni nell’isola, si sono un po’ allentate. Ma quale potrebbe essere la più realistica scintilla di una crisi geopolitica planetaria? «Un attacco americano all’Iran, che destabilizzerebbe l’Iraq ancora di più», risponde Young. Difatti, nonostante la presidenza Bush sia agli sgoccioli, Oxford Analytica lo mette ancora al secondo posto, nella graduatoria delle spine sulla rosa planetaria. E qual è la sfida cruciale per gli assetti globali nei prossimi vent’anni? «Dobbiamo vedere se l’Islam riuscirà o meno a modernizzarsi seguendo un percorso pacifico», risponde Young, su due piedi. Guarda caso, la storia e la geologia hanno regalato al mondo arabo le migliori e più vaste riserve di idrocarburi del pianeta. La modernizzazione dell’Islam non ha solo a che fare con la minaccia di al-Qaeda o l’instabilità nella striscia di Gaza. un problema che va dritto al cuore del Pianeta, pesantemente dipendente – quasi fosse una droga – dalla materia prima che fa letteralmente girare il mondo globalizzato. «Venezuela, Nigeria, Iran, Iraq, Arabia Saudita e Kazakistan – dice Young abbozzando un sorriso – non sono i posti più tranquilli e stabili del mondo». Gli esperti di Oxford Analytica lo sanno bene. E i suoi autorevoli clienti, nel frattempo, fanno gli scongiuri. Marco Magrini Usa-Arabia, quando il gioco si fa duro LONDRA. Dal nostro inviato Venerdì George Bush sarà in Arabia Saudita. La Casa Bianca ha già annunciato che il Presidente chiederà al re Abdullah di aumentare la produzione di greggio, al fine di far scendere i prezzi. Pare l’esatto copione del 15 gennaio scorso, quando Bush aveva visitato Riad per la prima volta. Senonché, da allora, il prezzo del barile è cresciuto del 36,4 per cento. Parecchi osservatori sostengono che lo stretto rapporto fra i due Paesi, di fatto l’alleanza strategica che più ha segnato la geopolitica planetaria dal dopoguerra a oggi, è ai minimi storici. Il patto che fu stretto nel giorno di San Valentino del ’46 fra un celebre predecessore di Bush (Franklin Delano Roosevelt) e il padre di Abdullah (Ibn Saud, il fondatore dell’Arabia Saudita moderna) ha retto alla prova della Guerra Fredda, ma forse non a quella del fondamentalismo islamico che – una delle poche cose chiare dette da bin Laden – non tollera la presenza militare americana nella stessa terra che ospita Mecca e Medina, le città sante. «A gennaio, nel suo primo giorno a Riad – ha detto di recente Chas Freeman, già ambasciatore americano in Arabia durante l’operazione Desert Storm – Bush è stato salutato da un editoriale su un giornale locale che analizzava la sua politica, con la seguente conclusione: "Questa non è diplomazia in cerca di pace, ma follia in cerca di guerra". Un linguaggio del genere era impensabile, solo pochi anni fa». Freeman non ha risposto a una nostra richiesta di approfondire l’argomento, ma qualcosa dev’essere cambiato davvero. «Sono appena tornato da Riad – confessa un esperto internazionale di cose petrolifere, che esige di non essere citato – dove ho incontrato ministri e autorità. Ho udito parole dure, nei confronti della Casa Bianca. Credo che il problema origini dall’invasione dell’Iraq, che intendeva portare stabilità nel Golfo ma ha prodotto l’esatto contrario». L’ultimo bollettino dell’Oapec, l’associazione degli esportatori arabi di petrolio (quindi un club dove l’Arabia Saudita pesa ancor di più che nell’Opec) si apre con un duro attacco a Bush. «Nell’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione – esordisce – ha detto che gli Usa intendono ridurre la dipendenza dal petrolio mediorientale del 75% entro il 2025». E poi dà la sferzata: « forse una coincidenza che il discorso sia arrivato solo un mese dopo la sua visita nel Golfo, quando ha implorato i Paesi di aumentare la produzione in modo da ridurre i prezzi del greggio. La posizione americana sul futuro dei consumi di petrolio è diventata molto ambigua». Traduzione: perché mai dovremmo investire per aumentare la produzione, o anche solo aprire di più i rubinetti (in realtà, solo Kuwait e sauditi hanno petrolio e risorse per farlo) quando il primo consumatore di petrolio si comporta così? Forse è una scusa. Fatto sta che non lo fanno. Neppure se l’inquilino di turno della Casa Bianca – istituzione che in sessant’anni ha contribuito a cambiare i destini della famiglia reale – li «implora». La storia ci dice che l’Opec è nata per evitare che i prezzi scendessero troppo. Ma anche che i sauditi hanno sempre fatto in modo di non farli salire troppo. Siccome i prezzi del petrolio sono basati sui prezzi dei contratti future che a loro volta dipendono dalle aspettative, basterebbe che promettessero di aumentare la produzione. Ma non lo fanno. «Sciocchezze – ribatte Robert Mabro, studioso di economia mediorientale a Oxford – basterebbe togliere la speculazione finanziaria, far comprare il petrolio solo a quelli che lo vogliono ritirare per davvero, invece che sulla base dei future. E tutto finirebbe». «Non c’è scarsità sul mercato – aggiunge Bassam Fattouh, analista dell’Oxford Institute for energy studies – non c’è nessuno che voglia comprare petrolio e non lo trovi». Questa, incidentalmente, è la posizione ufficiale dell’Opec e dei sauditi. Ma Leonidas Drollas, vicepresidente del Centre for Global Energy Studies di Londra, dissente. «Il mercato è costretto. Non c’è abbondanza di capacità produttiva. cominciato tutto nell’ultimo trimestre del 2006 quando i prezzi, dopo una lunga corsa, parevano destinati a sgonfiarsi. Lì, l’Opec è andata nel panico. L’Arabia Saudita ha diminuito la produzione, mascherando il tutto grazie a due nuovi ingressi nell’Opec, a gennaio e a dicembre del 2007: Angola ed Ecuador», quest’ultimo rientrato nel cartello petrolifero dopo 15 anni. In altre parole, l’output dell’Opec appare invariato. Ma in realtà è diminuito. Paiono frecce per l’arco di Matt Simmons, il banchiere texano che nel libro Twilight in the desert scommette su un imminente picco della produzione saudita: Ghawar, il più grande giacimento del mondo, sarebbe in declino. «I sauditi hanno ancora la capacità di aumentare la produzione di due milioni di barili al giorno», commenta Fadhil Chalabi, già ministro del Petrolio iracheno e segretario generale dell’Opec fra l’83 e l’88, che oggi vive a Londra. «Quei due milioni di barili in più non sono di alta qualità e al momento non li vuole nessuno». La buona notizia è che l’anno prossimo si dovrebbero aggiungere gli 1,2 milioni di barili al giorno di Khurais, il più grande giacimento a entrare in attività, su scala mondiale, dagli anni 70 a oggi. Sul monumentale progetto, la Saudi Aramco - Aramco starebbe per Arab American Company, ma gli americani sono stati estromessi nel 1980 – ha investito 15 miliardi di dollari. La cattiva notizia è che il petrolio "facile" sta per finire anche in Arabia. «Dopo Khurais – ha detto al Wall Street Journal Sadad al-Husseini, un ex manager di Saudi Aramco - resta solo un altro gigante: Manifa», giacimento offshore ancora più difficile da operare. Intanto Ali al-Naimi, ministro del Petrolio e numero uno di Saudi Aramco, ha gelato il mercato dicendo che non sono previsti nuovi investimenti: «Da qui al 2020, non ce ne sarà bisogno». Lasciamo perdere i fenomeni congiunturali, come le scorte di magazzino ai minimi o il dollaro che cade. Da questo scenario, si legge in controluce una rete di cambiamenti strutturali: la filigrana del nuovo ordine energetico mondiale. «Escludo che l’Arabia Saudita prenda decisioni che possano ledere l’interesse degli Stati Uniti: l’interdipendenza strategica che li lega non lo consente», risponde seccamente Chalabi. «Quando Al-Naimi dice che non farà altri investimenti, incoraggia i future sul greggio a salire. Ma la mia impressione è che il prezzo alto del barile sia anche nell’interesse degli americani». A detta di Chalabi, se Bush vuole davvero ridurre la dipendenza dal petrolio mediorientale come proclama, ha bisogno di un prezzo alto del barile: per rendere economico lo sfruttamento dei giacimenti statunitensi rimasti e per incoraggiare gli investimenti sulle energie alternative. «Non c’è conflitto di interessi, fra le due posizioni» di Washington e di Riad. La verità è che nessuno sa che cosa si dissero Roosevelt e Ibn Saud: non esiste ombra di documento. Nessuno sa che cosa si siano detti a gennaio Bush e re Abdullah, né mai saprà che cosa si diranno fra poche ore. Forse, solo con la prossima presidenza americana si capirà qualcosa di più: se l’alleanza strategica più strategica della storia è incrinata per ora, o per sempre. Marco Magrini