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 2008  maggio 12 Lunedì calendario

MILANO

«La parola "globalizzazione" nemmeno esisteva. Erano gli anni 60 e per noi il mondo era l’Europa. Il massimo dell’avventura imprenditoriale era aprire un negozio a Parigi. Ci riuscii alla fine di quel decennio, eravamo il primo marchio italiano diventato di moda, e già allora in molti sostenevano che il tessile fosse un settore da abbandonare. Infatti per poter mettere un piede in una capitale europea e non chiudere bottega il giorno dopo dovevamo innovare. Dovevamo inventarci soluzioni che gli altri non avevano nemmeno provato». Se per discutere di globalizzazione cercate una persona informata dei fatti bussate a casa di Luciano Benetton, l’imprenditore globetrotter che ha portato il marchio trevigiano nei cinque continenti e ancora oggi è un gran curioso del mondo e delle sue contraddizioni. «Un veneto, senza passaporto» si definì una volta in un’intervista e dopo di allora ne ha vissute tante. stato senatore del Pri negli anni 90 ma anche simbolo dell’anticonformismo pubblicitario e imprenditoriale. E proprio a lui, che odia tutti gli embarghi e si è opposto alla guerra in Iraq, è capitato di diventare obiettivo privilegiato dei blog no global per una storia di indigeni Mapuches e terre acquistate in Patagonia.
Per anni lei ha sostenuto le virtù del free trade e ha anche scommesso che fosse una forma di politica estera inclusiva. ancora di quell’opinione oggi che la globalizzazione mette paura ai cittadini dei Paesi ricchi?
«Il libero commercio delle merci è un contributo alla diffusione della democrazia, serve ad esportarla, cambia il modo di pensare dei governi e dei popoli dei Paesi in via di sviluppo. Ma anche con il commercio non bisogna comportarsi da invasori, il modello che abbiamo adottato è quello di una globalizzazione dolce. Nei Paesi dove siamo andati il nostro prodotto era considerato di moda e questo ci ha portato a incontrare le élite di mezzo mondo. Per loro il logo Benetton voleva dire "io sono globale" o comunque "penso globale". Una bella soddisfazione».
Forse si poteva essere dolci nel mondo di venti anni fa, oggi un po’ meno.
«Abbiamo sempre voluto costruire un dialogo alla pari. Cercavamo partner locali per insegnare ma anche per imparare. Anche venti anni fa, quando aprii un negozio a Cuba nel ’92 e incontrai Fidel Castro, dovetti subire le reazioni degli anticastristi che se la presero con i nostri negozi di Miami ma non per questo ho cambiato idea. Non ho mai amato la politica dell’embargo».
E infatti oggi lavora con l’Iran...
«Lavoro bene in Iran. Con i Paesi che ci vendono petrolio dovremmo mettere in piedi un sistema di compensazioni commerciali. E vendere loro le cose di cui hanno bisogno: camion, autobus e quant’altro. Capisco che il mondo è cambiato dopo l’11 settembre ma non vedo alternative. Prima di usare le armi bisogna esperire tutti i tentativi. Far vivere meglio la gente di quei Paesi, diffondere uno stile di vita democratico, ci permette di fare un passo avanti. So che i giovani coinvolti negli attentati di Londra dello scorso anno erano perfettamente inseriti nel nostro sistema sociale ed economico ma le sacche di estremismo esisteranno sempre. Bonificare dall’interno è la strada che mi convince di più».
Si definirebbe un filoamericano?
«Sicuramente. L’America ci ha insegnato troppe cose, tanti principi che applichiamo nella vita di tutti i giorni sono nati lì. Ma penso che quando si va in un Paese non bisogna giudicarlo subito. Se incontri un sudamericano e gli parli di patate è un modo per far sentire importante la loro tradizione di coltivazione di 400 diversi tipi di patate. Del resto non siamo noi italiano pronti a sorridere a chi ci parla con rispetto degli spaghetti?».
La verità è che oggi in Italia imprenditori e operai hanno paura che l’India e la Cina ci tolgano posti di lavoro.
«Sono stato il primo italiano ad andare in India per vendere sul mercato locale. un gran Paese, bella cultura, storici rapporti con l’Europa, un Paese democratico. E infatti ho deciso di andare più in profondità e produrre direttamente lì. Di recente il Times of India ha scritto che il marchio Benetton è considerato dai consumatori il numero uno dell’abbigliamento in India».
Se lei pensa che sia giusto produrre in India vuol dire che in Italia non si può più produrre a costi competitivi.
«Dobbiamo creare posti di lavoro più pregiati ed è giusto che perdiamo i posti di lavoro meno qualificati. Qualcuno soffre di questi cambiamenti ma se fossimo capaci di avere più ricerca per prodotti più originali, da vendere a prezzi migliori, penso che questo made in Italy sarebbe apprezzato dai mercati ancora di più. Non ci si può opporre ai prodotti che costano meno anche se distruggono posti di lavoro fragili».
Se va a fare questi discorsi darwiniani a cena in un El Toulà del suo Veneto la mandano a ramengo...
«(ride) Siì, può essere. Ma la mia non è una proposta snob, ma pratica. La globalizzazione è irreversibile, scomoda per tutti, tanto vale attrezzarsi per tempo. Una banca entra in crisi in America e i titoli industriali di tutto il mondo perdono valore. Non si capisce il nesso eppure succede».
Ha letto il libro di Tremonti sulla paura e la speranza dei cittadini globali?
«Sì, l’analisi è perfetta. Ma non penso che questi problemi possano essere affrontati con un approccio ideologico, uno strappo alla regola si può fare ogni tanto. Anche gli americani hanno messo i dazi per difendere le loro produzioni. Per un periodo limitato si può fare, non c’è scandalo. Però nel frattempo l’industria nazionale deve mettersi al passo, prepararsi all’apertura. Alla lunga i dazi non reggono. E comunque guardi che non è solo un problema di India e Cina, Indonesia e Vietnam diventeranno ancora più competitivi».
La globalizzazione non è solo flusso di merci ma anche di persone. Quanto conta la paura degli extracomunitari?
«Penso che un orientamento anti- globalizzazione trovi terreno fertile nella percezione di insicurezza. Incide molto nell’umore e nella qualità della vita di zone dove si lavora tenacemente. Devono migliorare le politiche di accoglienza ma vanno organizzati i flussi migratori in proporzione. E poi nel Paese la giustizia deve funzionare. Qualche delinquente è stato messo in libertà troppo presto e questo ha avuto il suo peso nell’opinione pubblica».
In passato lei è stato etichettato come un buonista. Ha cambiato idea?
«A me piace il dialogo ma se qualcuno sbaglia ti abbassa la qualità della vita e questo non va bene. Nella cronaca di provincia si legge di negozi che vengono derubati anche tre volte in un anno. Quelle famiglie sono gettate nella rovina, devono incominciare un’altra storia. I responsabili vanno trovati».
Ma chi pensa che la globalizzazione aiuti lo sviluppo da dove deve ripartire per evitare che si butti bambino e acqua sporca?
«Dalla giustizia sociale sicuramente ma credo sia giunta l’ora di un capitalismo più creativo, sensibile alle esigenze dei meno fortunati al mondo. Aprire nuove opportunità di business, cito ad esempio Al Gore che sta portando avanti progetti straordinari di ricerca nell’ ambito della salvaguardia dell’ambiente, con concrete ricadute che aprono nuove prospettive industriali».
Intanto i no global continuano a prendersela con lei per le terre dei Mapuches che ha comprato in Patagonia.
«Noi abbiamo comprato da una società argentina che esisteva da oltre 110 anni. Abbiamo cercato un dialogo coi Mapuches e offerto 7.500 ettari di terra come simbolo concreto. Ma nella discussione, a cui dovevano partecipare governo centrale, locale e forze sociali argentine, ci hanno lasciati soli. Il movimento no global, che ha aggregato idee e fermenti molto interessanti, oggi credo abbia perso almeno parte della sua forza propulsiva forse perché passato il momento della critica del No, è mancata la fase propositiva del Sì, della costruzione, della volontà di risolvere assieme i problemi».
Una volta però Naomi Klein con il suo no logo l’aveva incuriosito?
«Sì, mi sembrava una maniera per essere moderni ma poi ho visto che sono state anche prodotte felpe No logo. Resto convinto comunque che mettere il proprio nome sui prodotti sia una garanzia di responsabilità e serietà».
Dario Di Vico