Sergio Romano, Corriere della Sera 10/5/2008, 10 maggio 2008
Apprendo dal neopresidente della Camera Gianfranco Fini, il cui discorso inaugurale è stato salutato con frettoloso entusiasmo da destra (come ovvio) e da sinistra (assai meno ovvio), che io sarei un pericolo per la libertà
Apprendo dal neopresidente della Camera Gianfranco Fini, il cui discorso inaugurale è stato salutato con frettoloso entusiasmo da destra (come ovvio) e da sinistra (assai meno ovvio), che io sarei un pericolo per la libertà. Riconoscendomi pienamente nella categoria del «relativismo etico», scopro di essere diventato assai più pericoloso dei totalitarismi e dei fondamentalismi che ancora dominano in larga parte del mondo e che non sono affatto una sotterrata memoria storica del Novecento. Bene. Poiché io rivesto un ruolo sociale largamente disprezzato ma ancora piuttosto delicato (insegno storia e filosofia nel Liceo classico della mia città), che cosa mi debbo aspettare dal nuovo governo, se l’aria che tira è quella annunciata nientemeno che dalla terza carica dello Stato? Lucio Scenna Pescara Caro Scenna, G ianfranco Fini ha parecchi meriti. Ha capito che il suo partito avrebbe avuto un ruolo importante nella politica nazionale soltanto se fosse riuscito a sbarazzarsi del suo ingombrante passato. Ha accettato la prospettiva delle scissioni che generalmente colpiscono i partiti politici nel momento in cui cercano di riformarsi. Ha capito che il centrodestra sarebbe stato efficace soltanto se rappresentato in Parlamento da un solo partito. Si è reso conto che l’integrazione europea è necessaria al continente, oltre che in particolar modo all’Italia. Ha fatto un buon lavoro nella Convenzione europea presieduta da Valéry Giscard d’Estaing per la prima bozza del Trattato costituzionale. E mi è parso che abbia fatto il ministro degli Esteri con serietà. Ma sul modo in cui ha deciso di inaugurare la sua presidenza della Camera ho qualche riserva. Il discorso di Fini dimostra l’eccessiva importanza che il sistema politico italiano ha attribuito ai presidenti delle Camere. Non sono «speaker», come è chiamato in Gran Bretagna il presidente della Camera dei Comuni. Non sono esclusivamente moderatori, custodi dei regolamenti, tutori imparziali dei tempi parlamentari, garanti del decoro delle aule. Sono figure istituzionali e vengono scelti secondo calcoli che tengono conto degli equilibri della maggioranza e dei suoi rapporti con la minoranza. Appartengono al vertice della politica nazionale, al club dei giocatori di prima serie a cui occorre dare soddisfazione con un posto corrispondente alle loro ambizioni. Vi è una implicita contraddizione quindi fra la promessa di totale imparzialità con cui comincia liturgicamente il loro discorso inaugurale e i modi della loro scelta. Insomma, tanto per intenderci, Fini non sarebbe diventato presidente della Camera se non fosse troppo «piccolo» per fare il Premier e troppo «grande» per fare, come nella penultima legislatura, il vicepresidente del Consiglio. Per lui la presidenza della Camera è una tappa, una sala d’aspetto, una poltrona di prima fila da cui sarà più facile, sperabilmente, salire sul palcoscenico. questa la ragione per cui il discorso inaugurale è una sorta di manifesto politico-morale con cui il nuovo presidente presenta se stesso alla nazione, al tempo stesso un autoritratto e una sintesi di ciò che è ritenuto giusto e utile per il Paese. Vi è l’omaggio alle maggiori istituzioni: il capo dello Stato, il presidente della Corte costituzionale, le Forze armate, le forze dell’ordine. Vi è l’omaggio al Papa, «guida spirituale della larghissima maggioranza del popolo italiano e indiscussa autorità morale per il mondo intero ». Vi è un po’ di filosofia politica da cui si desume che Fini è contrario al «relativismo culturale» e considera il cristianesimo una componente fondamentale «nella formazione e nella difesa della identità culturale della nostra patria». Vi è un po’ di filosofia sociale da cui si desume che Fini vuole al tempo stesso l’aumento della ricchezza nazionale e la sua ridistribuzione «in modo equo, secondo le capacità e i bisogni di ognuno». Vi è po’ di «storia condivisa» con il doppio riferimento al 25 aprile e al 1˚ maggio come grandi date nazionali. Vi è un po’ di europeismo con un riferimento alla prossima ratifica del Trattato di Lisbona. E vi sono naturalmente tutti i topos del discorso politico italiano: diritto al lavoro, casta, morti bianche, dialogo delle culture, principio di legalità. In conclusione, caro Scenna, le confesso che preferisco un sistema politico in cui i presidenti delle Camere non siano costretti a questi esercizi retorici. Per quanto concerne infine il punto centrale della sua lettera, osservo semplicemente che il «relativismo culturale», per quanto mi concerne, si chiama tolleranza.