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 2008  marzo 20 Giovedì calendario

Antidepressivi Fine di un mito. Panorama 20 marzo 2008 Mal di vivere Si ricomincia (quasi) da zero. Ora che l’efficacia degli psicofarmaci, in base agli ultimi studi, è stata ridimensionata, quali armi restano contro questa patologia seria e diffusa? Si punta sugli stili di vita

Antidepressivi Fine di un mito. Panorama 20 marzo 2008 Mal di vivere Si ricomincia (quasi) da zero. Ora che l’efficacia degli psicofarmaci, in base agli ultimi studi, è stata ridimensionata, quali armi restano contro questa patologia seria e diffusa? Si punta sugli stili di vita. E riprende forza la terapia della parola. «Prozac & C? Inutili come caramelle». Nei giorni scorsi, su quotidiani italiani e stranieri è stata una raffica di titoli che, con infinite variazioni sul tema, riportavano uno degli ultimi studi sugli scarsi benefici degli antidepressivi. Sembra un’altra era rispetto a quando, non più di 15 anni fa, i giornali erano pieni di articoli sulla «felicità in pillole» e il Prozac, dopo il suo debutto nel 1988, conquistava le copertine delle riviste e veniva definito la vitamina P: nutrimento per anime con il male di vivere. Che cosa è successo? Uno studio è apparso a fine febbraio su Plos Medicine. Sfruttando il Freedom of information act, che negli Stati Uniti obbliga gli enti pubblici a rendere accessibili le informazioni su richiesta, ricercatori americani e inglesi hanno ottenuto i dati mai resi noti degli studi clinici su quattro fra gli antidepressivi di nuova generazione più prescritti: gli Ssri, o inibitori selettivi del riassorbimento della serotonina, quelli della famiglia del Prozac, appunto. La conclusione? Considerando tutti i dati nel complesso, non solo quelli usciti sulle riviste scientifiche ma anche quelli non pubblicati, questi farmaci risultano utili quanto una pillola finta. Un altro studio recente sul New England journal of medicine, anche se con meno scalpore, dava lo stesso verdetto. L’efficacia apparente di 12 antidepressivi sembra assai maggiore stando agli studi divulgati, cioè pubblicati sulla letteratura scientifica. Se si aggiungono quelli rimasti ignoti, la loro utilità appare in una luce assai meno rosea.  la conferma di qualcosa che svariati esperti sapevano, e di un quadro che si va definendo con sempre maggior dettaglio. Agli addetti ai lavori è ormai chiaro che, come spiega Corrado Barbui, psichiatra del Centro di ricerca Oms sulla salute mentale, «se somministro un antidepressivo a 100 depressi, 53 stanno meglio. Se do un farmaco finto a stare meglio sono in 42. La differenza è in quelle 10-11 persone». E in come, con più o meno ottimismo, si vuole interpretare il risultato. Come appare sempre più evidente, e come risulta anche dallo studio di Plos Medicine, la differenza tra pillola e placebo vale soprattutto nei casi di depressione grave. Più il malessere psicologico è lieve, minore, fino a scomparire, è la differenza tra prendere un farmaco vero e convincersi di averlo preso. Una bella differenza rispetto ai toni trionfalistici di un decennio fa. Il vento non è cambiato di colpo, anche se lo scenario si è definito in modo netto di recente. Un anno e mezzo fa lo studio Star*D, il più vasto finora condotto, su oltre 4 mila pazienti, ha mostrato che collezionando fino a quattro trattamenti diversi (o aumentando lo stesso farmaco) sei pazienti su dieci escono dalla depressione. Con il tempo, tuttavia, uno su due ha una ricaduta. La depressione appare sempre più per ciò che è: una malattia complessa, difficile da trattare, a volte cronica, le cui radici biologiche non sono del tutto chiare. Il contrario di ciò che certa propaganda sull’uso dei farmaci ha fatto pensare, arrivando a presentare la depressione come una malattia diffusissima (alcune stime parlano di una persona su tre) ma per cui esiste cura sicura ed efficace. Responsabile in parte di questa visione falsata è la difficoltà, anche per gli specialisti (e ancor più per i medici di base, i maggiori prescrittori di antidepressivi), di fare una diagnosi. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali fissa criteri per la depressione maggiore, la più grave. Il guaio, spiega Mario Maj, presidente della Società mondiale di psichiatria, è che questi criteri non distinguono fra demoralizzazione, cioè la tristezza dovuta a circostanze diffficili della vita (un insuccesso scolastico o di lavoro, una rottura negli affetti, una malattia seria, un lutto, difficoltà economiche...) e la depressione vera e propria. «Questa confusione che ha portato all’esplosione dei tassi di depressione nelle indagini epidemiologiche, all’aumento esponenziale del numero dei casi trattati (più 300 per cento negli Usa tra il 1987 e il 1997) e alla crescita dell’uso degli antidepressivi, triplicato tra il 1988 e il 2000, con un incremento di sei volte della relativa spesa». Non a caso si continua a parlare di epidemia (il comunicato stampa di un’industria produttrice di un nuovo antidepressivo, appena arrivato in redazione, parla di «patologia negata» e di «zone d’ombra per quanto riguarda l’incidenza nella popolazione»), quando le indagini epidemiologiche dicono che la diffusione della depressione maggiore è più o meno costante. Allargando sempre più il potenziale pubblico dei bisognosi di antidepressivi, si arriva alla conseguenza evidenziata negli ultimi studi: si fa sempre più ristretta la differenza di efficacia tra farmaci e placebo. Dice Maj: «Gli antidepressivi sono tanto più efficaci quanto più la malattia è grave. In genere non hanno effetto sulla demoralizzazione e ne hanno uno modesto sulla depressione lieve». A creare un’idea semplificata di che cosa sia la depressione non sono state solo le difficoltà diagnostiche o altre questioni di natura tecnica. Le aziende produttrici di antidepressivi hanno perseguito una strategia per allargare sempre più il mercato delle molecole che uscivano dai loro laboratori, presentandole quasi come pillole miracolose con scarsi effetti collaterali. E in buona misura ci sono riuscite. Fra interessi dell’industria e medicina accademica si è formata, accusavava già anni fa Giovanni Fava, psichiatra e professore di psicologia clinica all’Università di Bologna, «un’insana alleanza» che ha osteggiato la rappresentazione fedele dei dati; ha favorito convegni e simposi tenuti allo scopo di convincere i medici a prescrivere; ha avuto i suoi esperti nelle posizioni chiave in riviste mediche e associazioni scientifiche; ha messo in disparte chi non condivideva la visione prevalente. Gli antidepressivi che l’industria doveva vendere sono stati prescritti (e continuano a esserlo) come trattamento preventivo, o come cura da proseguire a vita. Sebbene niente faccia pensare che siano effettivamente utili, se non in casi limitati e definiti. Lo strapotere della pillola ha oscurato per anni un’altra verità: la soluzione chimica, anche se al momento può aiutare, alla lunga da sola non funziona. Gli stili di vita, ritenuti cruciali nella cura di molte malattie croniche biologiche, come diabete o ipertensione, curiosamente sono stati ignorati nel caso della depressione. Invece contano, e molto. «Spesso si pensa alla depressione come una malattia che piomba addosso come l’influenza, ma non è così» afferma Fava. «Senza accorgersene, c’è chi vive in modo troppo stressante: troppo lavoro, poco sonno, problemi in famiglia... Sul momento non succede niente, alla lunga però può arrivare la depressione». «Ai pazienti faccio un esempio: se lei è andato fuori strada, gli antidepressivi la possono riportare in carreggiata, ma se continua a guidare come prima, fuori strada ci finisce di nuovo» aggiunge Fava. C’è da chiedersi cosa non vada nel modo di guidare, e provare a rimettere in moto le forze di guarigione interne. Qui può entrare in gioco la terapia della parola, grande assente dal dibattito negli ultimi anni, e che ricomincia a riguadagnare terreno, sostenuta da nuove prove di efficacia, proprio ora che le pillole ne perdono. «Secondo gli studi più importanti, la sua efficacia non è inferiore, e forse è superiore, a quella dei farmaci, soprattutto nelle forme di gravità intermedia. Nel lungo termine potenzia e consolida l’azione dei farmaci» valuta Angelo Picardi, psichiatra del Centro di epidemiologia sorveglianza e promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità. La psicoterapia sembra avere un effetto preventivo sulle ricadute. Lo si è visto quando si è avuta la pazienza di verificare che cosa succedeva ai depressi non dopo uno, due o tre mesi dalla cura con i farmaci, ma dopo uno, due, tre anni. Sembrano funzionare, sottoposte a verifica sperimentale, alcune forme di psicoterapia breve, come quella cognitivo-comportamentale, quella interpersonale e poche altre. In una ventina di sedute, il terapeuta lavora con il paziente per insegnargli in modo concreto, con un diario o con esercizi specifici, a individuare gli stili di pensiero che favoriscono l’umore nero, e ad adottarne di più positivi. C’è chi ci riesce per carattere e chi tende a ruminare fissandosi sempre sul peggio. Il gruppo di Fava ha introdotto il trattamento detto modello sequenziale: farmaci in fase acuta, seguiti da psicoterapia cognitivo-comportamentale per consolidare il miglioramento. Metodo adottato in vari paesi perché sostenuto da studi rigorosi. Il ministro della Salute britannico ha stanziato 170 milioni di sterline per l’introduzione nel servizio sanitario di psicoterapie cognitivo-comportamentali nella cura della depressione e altri disturbi ansiosi. Il timore è quello dei costi. «Ma non è che l’uso dei farmaci venga a costare al servizio sanitario meno di un programma di psicoterapia» osserva Picardi. Da noi, dove le asl sono organizzate soprattutto per i pazienti psicotici, i depressi trovano scarsa o nessuna assistenza: pochi posti in ospedale e pochi ambulatori. In conclusione, parlando di depressione si ricomincia da zero. «Alla luce delle relative certezze che abbiamo, sarebbe ora di avvicinarci al problema con studi adeguati, che diano indicazioni sull’approccio complessivo, farmacologico e non, da adottare» propone Nicola Magrini, direttore del Centro per la valutazione dell’efficacia dell’assistenza sanitaria. «Non ha senso dire ”si cura con i farmaci” o ”si cura con la psicoterapia”, anzi non ha neanche più senso parlare di psicoterapia, dal momento che esistono diverse tecniche, con indicazioni differenti» dice Maj. «La scelta va fatta caso per caso in base alle caratteristiche del quadro clinico, alle modalità della sua insorgenza, alla storia precedente di malattia, alla risposta precedente alle cure, alla presenza dei vari fattori predisponenti e precipitanti (familiarità, eventi precoci di perdita, separazione o abuso, alcuni stili di funzionamento cognitivo), e inoltre tenendo conto della presenza di altre malattie». CHIARA PALMERINI