L’espresso 20 marzo 2008 Adriana Polveroni, 20 marzo 2008
City no limits. L’espresso 20 marzo 2008 Alle soglie del Duemila, in molte piazze spuntarono grandi orologi digitali che contavano i giorni, le ore, i minuti che ci separavano dal Terzo millennio
City no limits. L’espresso 20 marzo 2008 Alle soglie del Duemila, in molte piazze spuntarono grandi orologi digitali che contavano i giorni, le ore, i minuti che ci separavano dal Terzo millennio. Era un’immagine ansiogena, perché il tempo pulsava in quei pixel che cambiavano a vista d’occhio. I numeri che recentemente architetti e urbanisti hanno sfornato per descrivere le città di oggi fanno lo stesso effetto di quegli orologi: ogni ora Mumbai cresce di 42 abitanti, Jakarta di 39, Dhaka di 50, Lagos di 58. Dal 2007, il 50 per cento della popolazione mondiale vive nelle città, ma nel 2050 sarà il 75 per cento e già oggi un terzo si accatasta nelle bidonville. Negli anni Cinquanta le città con oltre un milione di abitanti erano meno di 20, oggi sono quasi 500. Si tratta di cifre che crescono in tempo reale, che sembra impossibile governare, e che danno il battito delle "endless city". Città infinite, che lievitano a vista d’occhio soprattutto nel Sud del mondo, dove la gente continua ad ammassarsi nelle città che rimangono delle promesse di salvezza, ma anche in quella parte sviluppata del pianeta che, per effetto di reti di comunicazione sempre più fitte, produce macroregioni come la Grande Tokyo di oltre 54 milioni di abitanti, la Euro-Lowlands di 50 milioni di abitanti (formata da Ruhr-Cologne, Amsterdam-Rotterdam, Brussels-Antwerp, Lille) e MiTo, crasi linguistica e fusione metropolitana di Milano e Torino, che nel suo piccolo mette comunque insieme oltre 10 milioni di abitanti. Sulle città infinite Ricky Burdett, docente alla London School of Economics (Lse) e Deyan Sudjic, critico di architettura, rispettivamente direttori della Biennale di Architettura di Venezia nel 2006 e nel 2002, hanno concentrato i loro sforzi dando vita a una ricerca durata due anni e sfociata in un volume, "Endless City", sostenuto dalla Lse e dalla Deutsche Bank, che Phaidon manda ora in libreria. L’idea, per Burdett, è che sia arrivato il momento per gli architetti di abbandonare la formazione estetizzante («Che però piace molto ai politici, perché è più facile costruire un bel museo che occuparsi della città nel suo insieme»), e impegnarsi in pratiche e linguaggi complessivi, nell’impatto sociale del loro lavoro, nel sistema dei trasporti, nei cambiamenti climatici: «Perché oggi è tutto questo ad avere un rapporto diretto con la forma architettonica», dice. Fine dell’età dell’innocenza, insomma, e apertura di una prospettiva di lavoro in cui ad agire sono saperi diversi, ma sempre più dentro le cose. Sempre più ad annusare l’aria che tira tra un grattacielo e uno slum, sapendo bene che, se non si interviene per tempo, quell’aria sarà irrespirabile a Pechino come a Lagos, e che un’eccellente soluzione dei trasporti adottata a Bogotà può far scuola anche a Shenzhen. Così come uno smottamento economico a Ovest ha ricadute a Est. «Le città-capitali hanno in comune molto più di quanto leghi tra loro gli Stati dove sorgono. Se Parigi cede quote di mercato nella moda, non sono Lione e Marsiglia a beneficiarne, ma Milano e Tokyo», avverte Deyan Sudjic. L’orizzonte è globale: ma, una volta tanto e con un pizzico di pragmatismo britannico, non solo per raccontare i mali che attanagliano le megalopoli, ma anche per articolarne i rimedi. Perché se la città è il luogo dei problemi, è anche il luogo della loro soluzione. E questo è solo il primo tratto, conflittuale, che caratterizza le "endless city". Che vuol dire? Per esempio che uno Stato punta all’omogeneità ma la città no, visto che quelle di successo sono le più cosmopolite, come Londra e New York. Che se la città è il termometro sensibile della vita che vi scorre, questo non significa solo disordini, ma anche che è un organismo vivo e vitale. E come tale va preservata, favorendo il dinamismo che l’ha fatta nascere, come sostiene il sociologo americano Richard Sennet, anche se prima o poi sorge il bisogno di un governo. Questo fa la differenza tra una città che funziona e una che va male e può anche opporre un sindaco al governo centrale, osserva Wolfgang Novak, dirigente di Deutsche Bank. Non basta: proprio perché è un organismo vivente, la città è destinata a crescere, ma la crescita pone un problema di sostenibilità. Come stanno insieme allora legittime esigenze di sviluppo, che hanno ancora Paesi come la Cina e l’India - e prima o poi anche l’Africa - con la salvaguardia dell’ambiente? «Non costruendo più casette a due piani, né nelle periferie di Londra né in quelle di Città del Messico, che sono più graziose, ma sono anche responsabili della dilatazione all’infinito delle città. E non progettando neanche più aree che ammettono un solo uso: come la Défense di Parigi, Canary Wharf a Londra o i grandi centri commerciali intorno a Milano», risponde Burdett: «Sì, invece, a strutture riadattabili, come i loft di New York, nati come granai, adottati come magazzini, divenuti poi sedi di uffici e oggi appartamenti». Flessibilità è la parola chiave che anche Shanghai, San Paolo o Delhi, realtà non più sintetizzabili come città, ma appunto "endless city", devono imparare per contrastare la monocultura che, per Jacques Herzog, uccide qualunque forma urbana. «Il male peggiore per una città è l’incapacità di aprirsi al nuovo e di adattarsi a circostanze mutate. Quando vedo le rovine della bellissima città indiana di Fatehpur Sikri, abbandonata vent’anni dopo essere stata costruita perché nell’area non c’era più acqua a sufficienza, mi chiedo se lo stesso destino attende Houston, Phoenix o Los Angeles, dove l’auto privata è la sola forma di trasporto praticata», aggiunge Sudjic. La capacità di reinventarsi, quando cambia la struttura economica, significa anche saper sfruttare gli interstizi che soprattutto le città europee lasciavano nel vivo del loro tessuto e l’abilità di riconvertire le vecchie aree industriali alle esigenze di oggi. Lo ha fatto Londra nel suo Southbank, un tempo uggiosa area di magazzini portuali, oggi salotto dell’arte dove solo alla Tate Modern si accomodano 5 milioni di visitatori all’anno. «Come ha fatto anche Barcellona, che dal 1870 con la struttura urbana progettata da Ildefonso Cerdà si è rivelata permeabile a tutti i cambiamenti», continua Ricky Burdett. La capacità di mutare pelle è una delle carte da giocare insieme a qualcosa che somiglia a una memoria intelligente, perché la flessibilità è una regola che il migliore urbanesimo si è tramandato di epoca in epoca e di città in città: «Basta vedere gli ospedali medievali di Siena o quelli più recenti di Parigi, oggi aperti a usi diversi», dice Burdett. L’alternativa alla città infinita è la città compatta. La sola che garantisca uno sviluppo sostenibile. Non tanto verticale o cintata da mura come erano le città medievali, quanto innervata da un’efficiente rete di trasporti (che Burdett e Sudjic non esitano a definire mezzo di giustizia sociale), ad alta densità, ma con molti spazi pubblici, dove si concentrino casa, lavoro e tempo libero, percorribile a piedi o in bicicletta. Un’utopia? Forse, ma sempre meglio delle città inventate a tavolino, utopie fredde e fallite: le New Town, che per un periodo, nella seconda metà del secolo scorso, hanno furoreggiato da Brasilia all’Inghilterra, passando per Gibellina, in Sicilia, lambendo con discreto successo l’India di Chandigarh e che oggi hanno trovato una nuova versione in supercittà come Dubai, Abu Dhabi, palestre dei più eccentrici e costosi capricci architettonici, dove i grattacieli di vetro spuntati nel deserto sono il peccato veniale. «Si tratta di un equivoco urbano. Che architetti sensibili come Rem Koolhaas, Zaha Hadid e Norman Foster stanno correggendo, costruendo a Doha edifici che si rifanno alla tradizione locale come i souq», conclude Burdett. A una forma di vita possibile che non è quella delle fintamente scintillanti New Town, né della città infinita. Adriana Polveroni