Valerio Pellizzari, La Stampa 3/5/2008, 3 maggio 2008
VALERIO PELLIZZARI
Il romanzo «Il cacciatore di aquiloni» è stato scritto in inglese, tradotto in una quarantina di lingue, ha venduto sette milioni di copie, ha ispirato un film, ma non è mai stato tradotto in Afghanistan. Cioè i primi, naturali, certamente scarsi e non facoltosi destinatari di quel racconto, i lettori che vivono nella terra d’origine dell’autore Khaled Hosseini, sono rimasti in disparte, esclusi dal grande banchetto editoriale e commerciale. Eppure il libro racconta una storia afghana, scritta da un uomo nato e vissuto in quel Paese fino a dodici anni, emigrato prima di conoscere tutte le stagioni della guerra che ancora oggi continua in quelle contrade. Gli agenti letterari americani di Hosseini, protettivi come le guardie del corpo di un cantante o di un attore cinematografico, si rifiutano di dire quante volte l’autore sia ritornato nel suo Paese, quanto tempo della sua vita sia trascorso effettivamente in Afghanistan, come se avesse una nazionalità originaria molto fragile, appannata, virtuale. Lo stesso scrittore, dopo un viaggio a Kabul lo scorso settembre con una delegazione dell’Onu, scriveva su «Newsweek»: noi occidentali abbiamo l’imperativo morale di assistere questo popolo, come ci dicono i sondaggi.
Abdul Jahani, considerato il maggior poeta afgano vivente, nato a Kandahar, uomo schivo, autore di tredici libri tra poesia e prosa, prova a spiegare perché gli aquiloni non hanno mai raggiunto i lettori di Kabul. «La maggior parte dei taleban venivano dalle tribù pashtun, di conseguenza tutti i membri di quelle tribù sono diventati dei paria agli occhi della opinione pubblica internazionale. L’autore ha sapientemente scelto il protagonista cattivo, il personaggio negativo del suo racconto tra i pashtun, che hanno una lunga tradizione di litigiosità e di contese sanguinose con gli hazara. A quel gruppo di minoranza sciita appartiene Hassan, il bambino bravissimo con gli aquiloni, altruista, descritto nel libro. Anche chi ha scritto Il Cacciatore è un hazara».
Appartengono invece alla etnia nemica dei pashtun, aggressiva, brutale, i teppisti che violentano Hassan. Appartiene alla stesso gruppo anche Amir, il suo compagno di giochi e piccolo padrone di casa, che assiste alla aggressione, che non sa difenderlo, ma che anzi lo denuncia al padre per un furto non commesso, senza sapere che sta denunciando il suo fratellastro. Poi con il passare delle pagine il melodramma si gonfia. Ricompare il capo dei teppisti, ormai adulto, prepotente, ipocrita, vizioso, che si schiera prontamente con i taleban vincitori: un pashtun doppiamente spregevole. Questa trama ricalca perfettamente le sceneggiature dei film che, prima dei taleban e dopo la loro caduta, hanno sempre riempito e continuano a riempire i cinema e gli schermi dei televisori afgani.
Aggiunge Jahani: «Accusare il rappresentante di una tribù afgana di essere un codardo, come è il caso del piccolo Amir, è una delle denunce più infamanti che ricade immediatamente su tutti gli altri membri, e se la tribù appartiene alla etnia di maggioranza è come accusare la nazione intera. Inoltre si può dire tutto contro i taleban ma non che fossero dei violentatori, perché erano seguaci rigidi dell’islam, e lo stupro è considerato un crimine odioso e incancellabile secondo la loro fede e i loro principi». Così è naturale che per una buona parte degli afgani di oggi il libro scritto dal loro compatriota emigrato in America sembri un manifesto politico contro la intera etnia pashtun, un’opera di propaganda straniera.
Il poeta di Kandahar conosce bene il labirinto delle relazioni tra clan afgani dove, dietro le lunghe barbe e i grandi turbanti, generalmente si annidano più lunghi silenzi che parole esplicite. E questa coltre impalpabile nasconde allo stesso modo solide alleanze, ma anche profondi sentimenti di vendetta e pretesti di tradimento. Qualche anno fa ha scritto «Il comandante», un libro coraggioso di cui l’Occidente non si è accorto. In quelle pagine per la prima volta un autore afgano recupera la cronaca contemporanea del suo paese, tradizionalmente compilata da testimoni stranieri, e sfata la leggenda dei comandanti guerriglieri impavidi e senza macchia, che avevano combattuto contro l’Armata Rossa e i comunisti. Racconta le brutalità dei sovietici, ma anche le violenze, l’avidità, l’ignoranza di quei guerrieri mitizzati in Europa e in America, come fossero tutti simili all’austero Massud, il Leone del Panshir. I mujaheddin di Jahani sono contemporaneamente angeli e diavoli. Per trovare un editore è dovuto andare oltre confine, in Pakistan, a Quetta. Il libro ha conosciuto solo l’edizione in lingua pashtun, e questo è servito non per le recensioni e le conferenze stampa, ma per raccogliere subito minacce e insulti dai diversi comandanti locali che si sono considerati offesi. I sette milioni di lettori del Cacciatore invece conoscono solo l’Afghanistan da esportazione.
Nell’estate del 2002 il presidente Karzai chiese all’autore de «Il comandante» di scrivere l’inno nazionale dopo la stagione maniacale dei taleban, che avevano vietato la musica, gli strumenti musicali, le canzoni, oltre ad imporre la barba per gli uomini e chiudere le scuole per le donne. Il poeta ricorda che anche in un paese popolato da analfabeti la lingua diventa un pretesto di lotta politica. «Era come preparare il sillabario cantato del nuovo patriottismo afgano per una classe di bambini analfabeti. Quel testo sarebbe stato diffuso all’alza bandiera, alle sfilate militari, e nelle altre occasioni solenni. Dopo una notte di scrittura e cancellature avevo messo in bella copia, su due paginette, quarantaquattro strofe. Prima ero andato a rileggermi tutti i vecchi inni, quello scritto al tempo del re, quello della prima repubblica, quello dei comunisti, quello dei guerriglieri antisovietici. Erano tutte composizioni molto semplici, dirette, che potevano essere comprese anche nelle valli e nei villaggi più sperduti, dove il mondo esterno arriva solo con la radio e con l’altoparlante della moschea. Per quelle composizioni era sempre stata usata la lingua pashtun, e così avevo fatto anch’io. Ma lì si presentarono i problemi».
Dentro il palazzo presidenziale qualcuno cominciò a dire che l’inno nazionale doveva usare anche parole degli hazara, dei tagichi, degli uzbechi, degli altri gruppi etnici che compongono la popolazione del paese. Il poeta rispose che quella miscela di lingue travasata in quarantaquattro strofe non poteva funzionare, che comunque lui non ero in grado di farlo. Poiché i taleban appena sconfitti provenivano dalle tribù pashtun, di conseguenza anche la loro lingua doveva essere sconfitta, penalizzata. Ci vollero alcune settimane per fare approvare quel testo che cominciava in modo didascalico: «Questo è un paese di alte montagne, questa è la casa delle aquile e della gente coraggiosa».
Il coraggio è la prima virtù nazionale, e l’addestramento comincia presto. La bravura di ogni cacciatore di aquiloni consiste nel giocare con il vento, avvicinarsi al filo che guida l’aquilone avversario e al momento opportuno tagliargli la strada, recidere quel filo, e conquistare il trofeo. E’ un gioco pieno di fantasia e di colori, un divertimento povero e poetico, preparatorio nella sostanza alla gara ben più violenta degli adulti quando si misurano nel buskashi, ciascuno sul proprio cavallo, in un grande spazio aperto, per contendersi il corpo di un montone. Il poeta insiste: «Lei ha visto i bambini che giocavano al posto di blocco sulla strada di Darulaman, ispirandosi ai mujaeddin, con spaghi tesi per fermare le auto e barattoli vuoti dove mettere il pedaggio. E ha visto tutte quelle auto con la striscia adesiva vistosa, che dice roadfighter. Può tradurre come vuole: pirata del volante, guerrigliero del traffico, ma il senso è sempre lo stesso. Gli aquiloni fanno parte di un unico itinerario educativo, sentimentale: bisogna sempre vincere una battaglia». Anche per questa ragione il Cacciatore di Hosseini ricorda una gara, un concerto, una sfilata, dove le sedie dei suoi compatrioti sono rimaste vuote.
Jahani parla a bassa voce. Dice che un libro destinato ai suoi compatrioti deve essere costruito in un certo modo, e che non basta tradurlo in inglese perché venga apprezzato all’estero. «Il comandante» è rimasto di proposito dentro la sua lingua originale. L’autore, nonostante ripetuti inviti a mettersi nelle mani di un abile editore straniero, è convinto che quelle pagine non possono avere fortuna oltre il confine, al massimo possono arrivare a Peshawar e Quetta, in Pakistan. Mentre Hosseini ha scritto direttamente in inglese un libro sull’Afghanistan come poteva scriverlo un autore occidentale. Continua Jahani: «Dopo l’11 settembre sono state stampate tonnellate di pagine sui vari aspetti del mio paese. Il libro degli aquiloni è stato scritto e pubblicato in un periodo così favorevole come nessuno poteva immaginare. Il titolo giusto è arrivato al momento giusto. In questi anni si è sviluppato tutto un filone di libri e di film dove gli autori più diversi hanno trovato ispirazione e spazio».
In questo terreno fertile è approdata anche Saira Shah, afgana di Londra, con il suo «L’albero delle storie» pubblicato qualche anno fa, uno dei racconti più belli nati dal mondo degli esuli. Ma non ha conquistato milioni di lettori, perché ha descritto un paese autentico. Mentre l’iraniana Hana Makmalbaf è andata a filmare, proprio nella zona dove i taleban avevano distrutto i grandi Buddha, la storia di una bambina di sei anni che vuole andare a scuola, e che per comprarsi il primo quaderno e la prima penna va a vendere quattro uova al bazar.
Il caso di Asne Seierstad, norvegese, arrivata a Kabul subito dopo la caduta dei taleban, con pochi soldi in tasca, con poca esperienza, ma con molto entusiasmo, ne riassume molti altri. Ha dedicato un libro a Shah Mohammad Rais, venditore e collezionista di libri. Lo ha intitolato «Il libraio di Kabul» e anche lei è diventata famosa con una storia che racconta l’Afghanistan da esportazione, perché quell’uomo per anni ha comprato e venduto libri, certo proteggendo un patrimonio dai saccheggi della guerra e dalla furia purificatrice degli studenti islamici. Ma quella raccolta di volumi era una eccezione nel panorama della città, attendeva esclusivamente i viaggiatori stranieri. La fama e la fortuna editoriale è poi miseramente deragliata in una contesa legale tra la donna bionda venuta da Oslo e il libraio che l’aveva accolta nella sua famiglia per vari mesi. L’ospite ha descritto i costumi di quella vita familiare, le prepotenze esercitate contro le donne. Ma per il libraio i dettagli della sua vita privata contenuti in quel testo tradiscono l’ospitalità offerta, portano disonore alla sua reputazione. L’uomo che ama i libri, presentato come un maschio padrone, alla fine è molto simile ai personaggi maschili incolti e violenti descritti nel libro degli aquiloni e nel successivo «Mille splendidi soli».
Il poeta di Kandahar è convinto che Khaled Hosseini, aiutato da una scrittura attraente, abbia influenzato come pochi altri un grandissimo numero di lettori. Ma insiste su un punto: «E’ molto difficile per un non afgano vedere dove l’autore vuole arrivare e quale è il suo obiettivo principale. In breve è uno scrittore miope, con un pregiudizio. I contenuti di questo libro sono stati accettati come realtà, per il semplice fatto che poche persone in Occidente conoscono la realtà dell’Afghanistan».
E infatti perfino il prudente, spesso pavido presidente Karzai, ha vietato la proiezione del film tratto dal libro degli aquiloni. Consapevole che l’immagine dei pashtun, stupratori e codardi, gli avrebbe rapidamente complicato la sua già complicata, incerta vita politica. Gli hanno dato un pretesto gli stessi produttori del film, raccontando in giro che le riprese erano state protette dagli uomini della Cia, con le armi in pugno. Non è il contesto abituale che fa crescere un’opera d’arte innocente.
C’è come uno scontro silenzioso attorno al «Comandante» e al «Cacciatore», due libri dalle sorti opposte, scritti da due autori completamente diversi per carattere e per idee. E’ come lo scontro che si prolunga da anni tra i militari occidentali arrivati a Kabul, bene armati ma ignari di quel mondo tribale, e i militari afgani, fermi al kalashnikov ma orgogliosi e turbolenti. Conclude Jahani: «Gli aquiloni di Khaled Hosseini sono come uno specchio deformante. Volano, obbediscono a chi li guida da terra, portano il colore in cielo. Ma sono diversi dagli altri aquiloni».
Giocattoli volanti, solo da esportazione.