Pier Mario Fasanotti, Panorama 7/5/2008, 7 maggio 2008
Panorama, 7 maggio Nel Canavese, a pochi chilometri da Torino e da Ivrea, in una valle che certo non ha lo sfarzo cromatico toscano, vivono all’incirca 800 fanciullini, che giovani o giovanissimi non sono più ma che coltivano una sorta di adolescenza interiore
Panorama, 7 maggio Nel Canavese, a pochi chilometri da Torino e da Ivrea, in una valle che certo non ha lo sfarzo cromatico toscano, vivono all’incirca 800 fanciullini, che giovani o giovanissimi non sono più ma che coltivano una sorta di adolescenza interiore. Con una pazienza e con un metodo che potrebbero far sorridere anche chi ha conosciuto le ormai archeologiche comunità dei figli dei fiori e le loro paludi mentali. Suggestioni egizie, sia grafiche sia scultoree, templi e labirinti per soffiare sul fuoco delle anime spesso assopite e per indicare percorsi di meditazione, un continuo chiamarsi e salutarsi con nomi che si sono inventati: è regola ferrea e giocosa, una condivisa abiura del passato orrendamente laico e consumistico. Qui ci si deve gettare alle spalle tutte le religioni del mondo, perché in qualche modo totalitarie, a volte lordate dal sangue della storia, poco importa se il ricordo va alle crociate o al Medioevo islamico. Siamo a Damanhur, che significa città della luce, comunità ecospirituale in attesa di un riconoscimento giuridico. Subito l’avvertimento che non si può fumare da nessuna parte, nemmeno all’aperto. La purezza non è solo quella interiore: i gesti e i simboli contano. E insistono che ci si deve purificare. S’avverte, in questo agriturismo dell’anima, l’orgoglio di una partita vinta: quella giudiziaria. Hanno faticato a convincere gli altri del loro candore di cittadini. Una setta? la parola che più li fa irritare. Niente sacrifici, niente sesso sfrenatamente libero, anzi, e niente imposizioni o sopraffazioni. Plagio di anime? Replicano con sorrisetti a chi, magari sulla scia del buon senso, si fa sfiorare da questo dubbio. Risale agli inizi degli anni Novanta il calvario inflitto da una magistratura doverosamente scettica. Si trattava di una setta cialtronesca o diabolica? Così sostenevano certi fuoriusciti. Taluni accennarono a violenze sessuali, ma i toni inquisitori dei fuoriusciti si sbriciolarono: quel loro rancore s’avviluppava attorno a fantasie o a menzogne, seppure verosimili. Lo Stato, però, intervenne ugualmente. Lo fece anche per motivi più prosaici: abuso edilizio. S’era sparsa la voce dell’esistenza di un tempio sotterraneo, costruito in 16 anni. Fu dapprima un garbato poker, poi un braccio di ferro. Alla fine i tendini di Damanhur s’allentarono all’arrivo di elicotteri, gipponi di poliziotti e auto dell’Arma. Il procuratore capo di Ivrea, raccontano a Panorama con il sollievo di chi alla fine la partita non l’ha persa, piombò lì con gli esplosivi. Deciso a farne uso se il tempio, ormai localizzato, non avesse schiuso porte e porticine, comprese quelle segrete e così somiglianti, nei congegni d’apertura, alle interiora pietrose delle piramidi d’Egitto. L’uomo che si presentò con la faccia dura dello Stato si chiama Bruno Tinti. Ora sta per diventare procuratore di Alba, dopo essere stato il numero due di Marcello Maddalena, al vertice dell’ingranaggio giudiziario sabaudo. Romano di nascita, Tinti è severo e bonario. Ha scritto un affilato pamphlet intitolato Toghe rotte (Chiarelettere editore) con prefazione di Marco Travaglio. Scene di magistratura in un interno, «anzi in un inferno», dice. Racconta come e perché si mosse contro Damanhur. C’erano lettere anonime e testimonianze che rimandavano a circonvenzione di incapace, truffe, abusi sessuali, appropriazioni indebite. Cose che adombravano il reato di plagio. Si parlava male di Oberto Airaudi, il capo della comunità esoterica. Lui, pittore e pranoterapeuta, dicevano, aveva l’aria di uno di quei santoni americani che speculano sulla fragilità dei creduloni. «Cercai di capire come funzionasse quel meccanismo» racconta Tinti «e mi resi conto che nulla provava soprusi in base al carisma personale o alla soggezione psicologica. Misi tutto a verbale e mi dissi: non c’è trippa per gatti. Però si configurava un illecito edilizio per il tempio sotterraneo, che contravveniva alle norme paesaggistiche e geologiche. Ci entrai, alla fine. ”Le riveliamo il nostro segreto” mi dissero. Poi ci fu il condono. Quanto ai membri della comunità, beh, quelli pagano una quota variabile a cooperative di cui diventano soci tenendo per sé parte del guadagno. Soldi all’estero? Boh». Ora Tinti frequenta i membri di Damanhur. Ha partecipato a un loro convegno, nell’ex fabbrica Olivetti di Vidracco, su «Valori etici ed esperienze a confronto». Tutto alla luce del sole, malgrado un’accentuata vocazione dei damanhuriani al riserbo, che è poi un vezzo adolescenziale. Segretucci di ragazzi con i capelli grigi che, come si legge nel loro quotidiano, osservano i movimenti di un capretto lasciato libero, un rito che si chiama «mantica dell’agnello». il capo Airaudi detto Falco a tirare le conclusioni: «Questo capretto ha fatto la sua danza, non si è ingarbugliato neanche una volta, sembrava allegro». Commento di un tale che risponde al nome di Merluzzo: «Si è evidenziata una direzione stabile e solida». Una donna chiamata Cicogna è analitica: «Il capretto non si è stancato… questo fa presupporre un cambio di strategia, velocità e decisione». Al convegno ha partecipato anche il sociologo Franco Ferrarotti: «Una delle cose che ammiro nell’esperimento Damanhur è la dinamicità, la mutevolezza, la capacità di evoluzione costituzionale… I veri paesi democratici sono quelli senza costituzione, come la Gran Bretagna». Tra un intervento e l’altro a tirare in ballo pure Montesquieu («La legge formale non esaurisce la sostanza del sociale»), gli uomini dello Stato, come Tinti, non hanno certo cantato un peana, piuttosto hanno messo in evidenza il fatto che gli spiritualisti della valle non imbrattano il Codice penale e nemmeno quello civile. E ancora: «Il nostro e il loro sono sistemi non paragonabili. Personalmente sono convinto che una nazione intera non possa adottare le regole di comunità come questa». La comprensione c’è ed è sincera: « gente contenta, che vive in maniera prospera, rispettosa della legalità. Nessuno di loro si sogna di non pagare le multe, anzi direi che evitano di prenderle, anche solo per sosta vietata». Neopastorelli con vocazione bucolica, insomma? Primitivi che vagano tra colonne, statue, dipinti e murales che occhieggiano al paganesimo? No, i piedi sono per terra. Con 60 attività produttive hanno un fatturato di 20 milioni di euro. C’è anche una moneta a circolazione interna. Intuiscono le obiezioni dei profani e ripetono, a difesa, la parola gioco. Conoscono bene l’inglese e l’uso del computer, sono esperti nelle pubbliche relazioni, vanno all’estero e all’estero mandano i figli studenti. Quelli delle medie devono fare una tesina sulla siderurgia? Bene, tutti in gita a Pittsburgh (se le casse della comunità lo consentono: ma paiono ben rifornite). Hanno evitato il ciao (deriva da schiavo: disdicevole per i pacifisti) e dicono «con voi». Via anche i nomi dell’anagrafe. Fa un po’ effetto sentir dire «grazie, Formica-Coriandolo» o «come stai, Gufo-Mandragola?». No, non siamo sul set di Harry Potter. Siamo in una sintesi un po’ kitsch di civiltà perdute, rivissute in chiave ottimistica. Panorama chiede a Silvia che ora si chiama Esperide se non bastino gli insegnamenti del Vangelo. E lei, laureata in lingue a Milano, risponde: «Cerchiamo una sintesi più universale. Il Cattolicesimo ha stravolto il messaggio di Cristo, è stato un colonialismo spirituale». Falco, il vostro capo, ha sempre ragione? «No, più che dare risposte pone domande». Falco, dal 1975 a oggi, si dedica ai confratelli. Sogna «un parlamento dei popoli» e informa che un anfiteatro per 5 mila persone e provvisto di cupola ci sarà, e presto. Aggiunge: «Ascolteremo tutti. La differenza è ricchezza. E, per favore, non parlate di tolleranza: è una brutta parola». Magia? «C’è magia quando si conosce qualcosa». Membri di Damanhur sono sparsi in tutto il territorio. Anche nei consigli comunali. Uno di loro era candidato nelle liste della Sinistra Arcobaleno. Ma al radicalismo dei Verdi di Alfonso Pecoraro Scanio non credono più. Nemmeno loro. Pier Mario Fasanotti