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 2008  maggio 01 Giovedì calendario

ANTONIO MASSARI

BARI La chiamano «colonia degli hanseniani». Il lungo viale, la fresca e ampia pineta, poi il portone del palazzo a tre piani. L’ultimo «hanseniano» è arrivato dall’Africa solo pochi giorni fa. Altri sono qui da quarant’anni e passa: la colonia degli hanseniani è un forziere di storie dimenticate. Un forziere difficile da aprire: i suoi abitanti (a volte) ci temono. una sorta di isola, che di tanto in tanto getta un ponte con il «mondo dei sani». Se può. Se vuole. Perché il «mondo dei sani» – ci spiegano – qui è amato e temuto. Soprattutto temuto. A causa del suo giudizio. E di quella parola, che non vogliono più sentir pronunciare: lebbra. Perché? Morbo di Hansen fa meno paura. Non agli ammalati: al mondo dei sani.
«C’è stato chi, in punto di morte, ha chiesto ai medici d’essere trasferito nell’ospedale vicino. Al reparto di dermatologia. Il motivo? Non voleva che i familiari, che arrivavano da un’altra regione, e non l’avevano mai conosciuto, sapessero della sua malattia. Ha voluto nasconderla fino all’ultimo: fino alla sua stessa sepoltura. Che dovevamo fare? L’abbiamo accontentato». «Gli hanseniani - aggiungono i medici – erano, e forse sono ancora, il prototipo di ciò che non vogliamo vedere».
Abbracciata a un cuscino
La colonia, costruita nel 1958, è semi-nascosta nelle campagne, sulla via che da Gioia del Colle porta a Matera. Oggi è l’unica esistente in Italia: l’unica nella quale i lebbrosi vivono, perché altrove, da Genova a Messina, ci sono centri specializzati, ma sono ambulatoriali. Questo è, invece, ciò che un tempo avremmo definito un «lazzaretto». Oggi gli ammalati del morbo di Hansen, in tutta Italia, sono poco più di un centinaio. La metà vive in questa colonia, che appartiene all’ospedale ecclesiastico Miulli, e conta cinque medici.
Di qui, negli anni Ottanta, è passato un viceministro del governo Craxi e poi qualche assessore. Per lo più, però, povera gente. «L’ultimo italiano - ci dicono - s’è ammalato all’incirca sette anni fa». La malattia della «povera gente», ormai, riguarda quasi esclusivamente gli immigrati. E per tutti, le piaghe più dolorose sono nello spirito: «Per lo spirito non c’è guarigione possibile», dicono i medici. «Qui abita gente che ha rinunciato al mondo. Per sempre. Anche se potrebbe frequentarlo. Le delusioni, le umiliazioni subite, non gli consentono di attraversare la pineta e varcare il cancello. E questo anche quarant’anni dopo il primo ingresso».
C’è un signore che dal Nord si presentava ogni tre mesi per un controllo: con una scusa si allontanava da casa e dai propri figli che non sapevano nulla della sua malattia. E c’è una che ha quarantanove anni: è qui da quando ne aveva nove. «Qui ci sono mamme che la notte, per mesi, hanno abbracciato il loro cuscino», ci raccontano i medici. «La mattina lo trovavo zuppo di lacrime», ha raccontato la donna, «perché immaginavo fosse il mio bambino».
Erano gli anni Sessanta: per un hanseniano, all’epoca, non c’era possibilità di tenere un figlio. Glielo strappavano dalle braccia appena nato. Per l’ultimo degli hanseniani, arrivato dall’Africa, la vicenda è diversa: nel nuovo millennio, in un paio di mesi, le sue mucose potrebbero già essere a posto. In un paio d’anni, anche le sue ulcere. Il che significa: libertà di condurre una vita normale. Lui appartiene alla seconda generazione. Composta per lo più di immigrati. Qui convivono due generazioni di ammalati: quelli che, prima dell’avvento della «rifampicina», principio attivo utilizzato negli anni Ottanta, avevano poche possibilità di guarigione.
I pendolari

E poi gli altri: i «pendolari», che grazie alle cure potrebbero condurre una vita quasi normale e ogni tre mesi effettuano il controllo. « una malattia a bassissima contagiosità», spiegano i medici, sperando che possa cadere il pregiudizio. Un pregiudizio che si può spiegare con un altro esempio: «Abbiamo chiesto a decine di lavanderie industriali di lavare lenzuola, federe e coperte – dice don Mimmo Laddaga, direttore amministrativo – ma siamo costretti a lavare tutto da noi. Le lavanderie temono che si sparga la voce e si perdano i clienti». «Eppure – dice un medico – dal 1958 a oggi qui, tra medici e infermieri, non è mai stato contagiato nessuno. Neanche quando la colonia contava 250 pazienti».
Tra quei 250 pazienti, in tanti, si sono sposati. Tra loro. Tra il primo e secondo piano «resistono» circa sette coppie. Intorno a loro è cresciuto un piccolo mondo, fatto di suore polacche inviate da papa Giovanni Paolo II, e varie strutture: un campo di calcio, il piccolo cinema. Ognuno ha la sua stanza con la chiave. Ognuno ha il suo hobby da coltivare. Il suo animale da allevare. Persino la pineta, qui, è stata piantata dagli hanseniani. Una pineta che ha visto gente arrivare e fuggire. Come quella madre, che cercava continuamente di scappare, per rivedere i suoi quattro figli, e «una volta c’era quasi riuscita: fu presa dai carabinieri a soli cinquanta metri da loro. Cinquanta metri prima d’una carezza mai data».
Dottor Roberto Giannico, lei è il responsabile medico della colonia hanseniana di Gioia del Colle da cinque anni: è possibile il reinserimento di chi è colpito dal morbo di Hansen?
«Sì, ma il problema è economicoil sussidio dello Stato non supera gli otto, novecento euro mensili. Eppure, in tutta Italia, parliamo di massimo 120 ammalati».
Dal punto di vista medico, invece, la guarigione è possibile?
«La guarigione clinica è ancora impossibile da accertare. Ma il punto è un altro: la contagiosità. Oggi, in un mese circa, è possibile azzerare il contagio per le vie mucose. Per le lesioni cutanee, possono bastare due anni».
Vuol dire che non essendo più contagiosi, potrebbero condurre una vita normale?
«Sì, quando non si è più contagiosi a livello cutaneo. Ma c’è ancora troppa paura nonostante sia stato accertato che per ammalarsi, spesso, bisogna essere predisposti geneticamente, e comunque sono necessarie particolari condizioni igieniche, di nutrizione, e persino climatiche. la malattia dei poveri. Non a caso, ormai, nel 90 per cento dei casi, curiamo immigrati che arrivano dalle aree più disperate del pianeta».3In Italia fino agli Anni 60/inizio Anni 70 la lebbra autoctona era concentrata in piccoli focolai rurali. Oggi questi focolai si possono considerare quasi del tutto estinti: nell’ultimo decennio pochi casi autoctoni sono comparsi in Calabria e Sardegna nei siti dei tradizionali focolai. Negli Anni 50 si ebbe un aumento dei casi dovuto al ritorno di militari che, per cause belliche, avevano soggiornato in paesi con lebbra endemica (Somalia, Etiopia, Kenia, India). Nel nostro Paese la lebbra è oggi principalmente sostenuta dai casi di importazione: italiani che hanno soggiornato in Paesi con lebbra endemica e immigrati provenienti da questi Paesi. Dal 1970 al 1979 sono stati diagnosticati 102 casi di lebbra di cui 16 immigrati (16%) mentre tra il 1980 e il 1989 sono stati identificati 76 di lebbra, di questi 25 erano immigrati 33%. Dal 1990 al 1999 i casi di lebbra ammontavano a 112 di cui 77 immigrati (69%). Nel 2000-2004: 47 nuovi casi di cui il 77,4% tra gli immigrati.