La Stampa 1/5/2008, 1 maggio 2008
ROBERTO GIOVANNINI
ROMA
All’inizio, sembrava una cosa divertente: qualche colpo di clic sul sito dell’Agenzia delle Entrate, ed ecco apparire i redditi guadagnati nel 2005 dal vip di turno, dal vicino di casa, dall’odiato collega, dall’ex-marito. La notizia era stata anticipata da Italia Oggi e da Metro, che nelle edizioni del mattino avevano pubblicato molte succose anticipazioni. Ma già a mezza mattinata il frenetico passaparola aveva prodotto una pressione tale da far saltare i server dell’Agenzia, da scatenare l’attenzione e l’interesse dei politici e dei media. Arrivati alla sera, l’«operazione trasparenza» voluta (sulla base di norme del 1972 e 1973, quando Internet era solo un futuribile progetto del Pentagono) dal direttore dell’Agenzia delle Entrate Massimo Romano e avallata dal viceministro delle Finanze Vincenzo Visco si è trasformata in una vera e propria catastrofe. Prodi, Veltroni e Padoa-Schioppa furiosi, tutto il centrodestra all’assalto, lo sberleffo di Beppe Grillo. E soprattutto, lo stop imposto dal Garante della Privacy Francesco Pizzetti. Alla fine, c’è lo stop alla diffusione dei dati: ma la Rete non perdona, e ciò che è stato pubblicato resterà (forse per sempre) in giro sul Web. Compresa la scarsissima lealtà fiscale di milioni e milioni di italiani.
Massimo Romano - funzionario pubblico fortemente stimato e voluto da Visco alla guida dell’Agenzia delle Entrate - si assume così la responsabilità di una decisione che a suo dire risponde strettamente ai dettami della legge; una diffusione di dati che è sempre stata fatta, sia pure con mezzi cartacei. In una nota diffusa in serata, l’Agenzia spiega che un Dpr del 1973 (Irpef) e uno del ”72 (Iva) impongono «la predisposizione degli elenchi nominativi dei contribuenti che hanno presentato la dichiarazione dei redditi». Una norma poi attuata nel 1991 nella forma presente. Insomma, c’è poco da fare: l’Agenzia deve prendere gli elenchi dei contribuenti, e consegnarli ai Comuni e agli uffici territoriali del Fisco, è la legge. L’unica novità, dicono alle Entrate, è la modalità di diffusione dei dati, oggi diramati via Web.
Pare però incredibile che non ci sia resi conto delle conseguenze concrete prodotte da questa particolare, potentissima, «modalità». Una cosa è apparire con il proprio reddito 2005 (le dichiarazioni sono del 2006) su di un librone, in forma isolata e non riproducibile isolatamente. Un’altra è restare con i propri dati (manipolabili, rielaborabili, e così via) online per l’eternità, grazie ai motori di ricerca. Massimo Romano sostiene che un codice del 2005 consentiva la diffusione via Internet, e il Garante della Privacy nel 2001 e nel 2003 (era allora Stefano Rodotà) aveva dato luce verde in proposito. Visco, da parte sua, aveva avallato la scelta di Romano: in una dichiarazione diramata all’ora di pranzo il viceministro ha definito l’operazione «un fatto di trasparenza, di democrazia», simile a quanto si fa «in tutto il mondo». «Era già pronto per gennaio - spiegava Visco - ma per evitare le polemiche in campagna elettorale ho chiesto di pubblicarle più tardi».
E poi, la tempesta digitale. I server crollano sotto il peso delle richieste dei curiosi, con tanti cittadini furiosi per essere messi in piazza e altri invece felicissimi che finalmente siano rese note dichiarazioni dei redditi irrisorie ovviamente false. La politica va all’attacco. Per il Pdl Guido Crosetto sostiene che questa sia «l’ultima viscata» per «fare concorrenza a Dagospia» mentre Renato Brunetta pur apprezzando la trasparenza dice «no al fisco spettacolo». Maurizio Leo (An) ritiene che la normativa consente la pubblicazione degli elenchi va ripensata e sarà dunque modificata. Mario Ferrara (Fi) parla della «vendetta di Visco contro gli italiani rei di averlo mandato a casa». Non è d’accordo il ministro per lo Sviluppo Pierluigi Bersani: «La Pubblica Amministrazione deve garantire la massima trasparenza». I commercialisti parlano di «voyeurismo» e mettono in guardia sui rischi per la sicurezza, i tributaristi invocano il buon senso che sembra «dimenticato» e le associazioni dei consumatori si dividono tra chi sottolinea l’importanza della trasparenza e chi mette in luce il pericolo della privacy violata e pensa a richieste di risarcimento. Romano Prodi, letteralmente furibondo, convoca il viceministro Visco a Palazzo Chigi. E il Garante della Privacy decide di stoppare questo circo: decisione senza «base normativa adeguata», afferma Pizzetti,che «invita» l’Agenzia a sospendere le diffusione dei dati. Richiesta accolta da Romano e da Visco. Ma il vaso di Pandora è stato (ormai) aperto.
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FLAVIA AMABILE
Grillo Giuseppe. Data di nascita: 21 luglio 1948. Reddito di lavoro autonomo dichiarato nel 2005: 4.272.591. Se volete lo si può scrivere in maniera più leggibile: 4 milioni di euro e rotti. Otto miliardi di vecchie lire. Più o meno quanto Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica. Il doppio di Ciro Ferrara della Juventus. Il triplo di Luciano Benetton. Insomma c’era di che arrabbiarsi e Grillo si è arrabbiato. Le liste precisano anche quanto paga di imposta netta: 1.823.010 euro.
«Follia, questa è follia», scriveva Grillo ieri sul suo blog. Ma i suoi fedelissimi questa volta non lo seguono, molti si sentono traditi dal paladino dell’Anti-Casta e lo attaccano, senza risparmiare le accuse. Nel suo post Grillo punta il dito contro il ministro dell’Economia e il suo vice: «Gli è stato suggerito dalla Ndrangheta, dalla Mafia, dalla Camorra e dalla Sacra Corona Unita. Padoa-Schioppa e Visco, con la benedizione di Prodi e del centro sinistra unido che mai sera vencido, hanno eseguito». E poi, ancora accuse: «Dopo l’indulto che ha liberato le carceri questo ex governo di imbelli, presuntuosi e deficienti fornisce ai criminali le informazioni sul reddito e l’indirizzo di casa dei contribuenti. Pagare le tasse così è troppo pericoloso, meglio una condanna per evasione fiscale che una coltellata o un rapimento».
Perché pubblicare i dati dei redditi online nasconde seri pericoli: «I rapimenti di persone saranno facilitati, il pizzo potrà essere proporzionato al reddito dichiarato. La criminalità organizzata non dovrà più indagare, presumere. Potrà andare a colpo sicuro collegandosi al sito dell’agenzia delle entrate. I nullatenenti e gli evasori non avranno comunque nulla da temere. Chi paga le tasse sarà punito, chi ne paga molte potrà essere sequestrato, taglieggiato, rapinato».
Dichiarazioni in rete o no, insomma, il dibattito è in corso e anche sul blog di Grillo non c’è l’abituale sostegno incondizionato al comico genovese. C’è chi si domanda come mai «prima Grillo dice che bisogna mettere tutto sulla rete e ora invoca il nemico Tremonti perché ciò non accada». Qualcuno giudica le parole di Grillo piuttosto ingenue: «La ”ndrangheta, la camorra?!?!? Hanno bisogno che l’Agenzia delle Entrate renda pubblici i redditi per saperli?». E poi ancora chi invita tutti a essere realisti: «Voi che rimanete a bocca aperta? Pensavate fosse senza un soldo?».
Non ha torto perché che Grillo guadagnasse più di molti liberi professionisti e più anche di molti suoi colleghi lo si diceva ed era stato scritto più volte. Anche per questo i fedelissimi parlano di un complotto. Nel pomeriggio poi appare un buco nei commenti fra le sei e le sette e allora si inizia a gridare al «boicottaggio» e all’«oscuramento». C’è chi minaccia di marciare su Roma. E chi proprio si indigna contro il comico e lancia sospetti: «Noto che ogni giorno che passa le tue posizioni finiscono sempre più per coincidere con i signori del centrodestra.... Sarà il caso di gettare la maschera?» scrive tale «Lio subcosciente». Non da meno Pierfrancesco che rimprovera e lamenta: «Ora che i dati sensibili sono anche i suoi, la trasparenza non va più bene? I sacrifici vanno bene, sì, purché a farli siano sempre gli altri». E Sergio Zeta interpreta invece l’uscita di Grillo come una forma di imbarazzo: «Chi non ha niente da nascondere non nasconda! Io faccio un dottorato di ricerca e guadagno 9600 euro annui. Se fossi Grillo anche io proverei imbarazzo nel dichiarare 4 milioni».
Insomma c’è chi non ha difficoltà a esprimere la propria delusione: «Questo articolo segna la fine di un sogno. Ed io che già ti vedevo in politica, a fare le cose per bene. Tutti uguali. Siete tutti uguali». E infine c’è chi ironizza: «Da buon genovese Beppe Grillo dimentica tutto il resto quando si tratta di soldi».
Contrario alla pubblicazione è anche il presentatore televisivo Massimo Giletti: «Lo trovo abbastanza indecente. Un voyeurismo con il quale comunque ormai conviviamo. Non parlo tanto per me che sono un personaggio pubblico e quindi abituato a rispondere un po’ di tutto ma per altre persone che di pubblico non hanno tutto». Per l’attore Luca Barbareschi, neodeputato del Popolo della Libertà, non c’è invece alcun problema. La sua dichiarazione dei redditi, avverte Barbareschi, «possono stamparla anche sui muri». E anche il papà del motociclista Valentino Rossi fa spallucce: «I nostri redditi hanno fatto il giro del mondo».
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ANTONELLA RAMPINO
Sarà anche vietatissimo e deprecabile, come oggi dice l’autorità per la privacy, ma di certo non è la prima volta che si rendono di pubblico dominio i dati del fisco degli italiani. «Io lo feci, quand’ero ministro delle Finanze, nell’82, e poi con alcune varianti anche nell’89», ricorda il socialista Rino Formica, un ministro di interventismo craxiano, e protagonista di leggendarie polemiche. «Internet allora non c’era, ma noi facevamo delle pubblicazioni, che davamo innanzitutto ai giornalisti: che i dati venissero pubblicati era una questione di etica e di trasparenza». Naturalmente, spiega Formica, «diverso è se si rendono pubblici dati sensibili e personali come a quale ente si destina l’8 per mille, a chi si dona il 5 per mille, o le spese per le cure mediche». Dati che naturalmente Vincenzo Visco e l’Agenzia per le entrate si son ben guardati dal mettere in rete. Il caso degli Anni Ottanta appare conforme a quello di oggi.
Ci furono allora le polemiche cui assistiamo oggi?
«Un pochino. Ma non fu messo in questione se fosse giusto o meno: si chiese che fosse dichiarato, nominativo per nominativo, se c’era un accertamento fiscale in corso. Evidentemente, qualcuno la prendeva come se quegli elenchi fossero di evasori, cosa che non era. Tanto che poi, quando arrivò al governo, Bruno Visentini abolì quegli elenchi. Nell’82 la pubblicazione era stata inserita in una legge di accompagnamento alla Finanziaria. Certo i dati erano limitati all’imponibile, al saldo riportato sulla dichiarazione dei redditi. Volevo fossero resi pubblici anche i condoni, ma questo per contrasti di governo non fu possibile. Tutto nacque da una vivace discussione in Senato con Bruno Visentini, perché lui era contrarissimo ai condoni, anche se poi ne usufruiva per la Olivetti. Alla fine non se ne fece nulla».
In quegli Anni Ottanta il settimanale economico «Il Mondo» di quei dati fece un opuscolo allegato, diviso per fasce, da chi guadagnava mezzo miliardo di lire in su. Ma lei perché prese quella decisione?
«Diamine, ma perché rendere pubblico l’imponibile è giusto! E’ così in tutte le democrazie, a cominciare dagli Stati Uniti. E’ così per le persone individuali e anche per le imprese, un dato ancor più importante, dal punto di vista del fisco. In America, guadagnare molto denaro è un merito, tanto che alcuni professionisti fanno stampare l’alto importo dell’imponibile sul biglietto da visita. Mi ricordo che in Italia anche Franco Piro lo fece, girava coi bigliettini con su il suo nome, e quanto guadagnava ogni anno. Un’azione provocatoria».
Lei diceva che fu anche una necessità di trasparenza a motivare la pubblicazione degli elenchi. Nessuna «persecuzione» nei confronti dei contribuenti?
«Pubblicare i dati dei contribuenti risponde a un principio etico e fu per noi un gesto di forte valenza riformistica. Come mai, secondo lei, oggi sono i comuni a voler disporre dei dati delle dichiarazioni fiscali dei loro cittadini? Perché tra breve, col federalismo fiscale, saranno utilissimi per combattere l’evasione fiscale. Un’idea non dissimile da quella che avemmo noi nell’82. Si discuteva del ”tenore di vita”, ovvero della differenza che c’era tra quanto si pagava in tasse, e la vita che si conduceva. Mi ricordo di un caso che ci fu a Roma, un signore quasi nullatenente per il fisco, ma che faceva la bella vita. Gli chiedemmo come facesse, poiché sospettavamo che fosse un evasore, e lui ci disse che aveva qualcosa come 2 miliardi in Bot, che gli rendevano moltissimo, e allora erano esentasse. E’ così che nacque la tassazione alla fonte. utile che i comuni possano sapere quanto guadagnano i cittadini, è più facile individuare gli evasori».
Lei dice ”noi”, onorevole Formica. Perché? Le diede una mano Giulio Tremonti, che allora era suo consigliere alle Finanze?
«Tremonti ebbe idee utilissime. Anche in altre due occasioni. Grazie a lui riuscimmo a rompere il segreto bancario con un decreto che suscitò le ire di Spadolini, e a far includere, senza dover fare una nuova legge, nella dichiarazione dei redditi la situazione patrimoniale. Per avviare la tassazione dei patrimoni, naturalmente».
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