Bruno Ventavoli, La Stampa 26/4/2008, pagina 23, 26 aprile 2008
Il capo non ha sempre ragione. La Stampa, sabato 26 aprile 2008 Nel 197 avanti Cristo i romani erano pronti ad affrontare i macedoni
Il capo non ha sempre ragione. La Stampa, sabato 26 aprile 2008 Nel 197 avanti Cristo i romani erano pronti ad affrontare i macedoni. E tutto lasciava presagire che le cose andassero a finire male, perché i macedoni schierati a testuggine erano imbattibili. Ma un tribuno romano ebbe l’idea di non affrontare il nemico nel modo «giusto», ovvero di fronte, come s’era sempre fatto. Ma nel modo «sbagliato», ovvero alle spalle, prendendoli di sorpresa, trasformando i loro giganteschi e invincibili scudi in uno svantaggio. Forse l’idea non era del tutto ortodossa, e anche un po’ riprovevole dal punto di vista cavalleresco, ma i romani vinsero la battaglia. E’ un esempio. Uno dei tanti che si possono trarre dalla Storia (sempre maestra di vita) che le regole, le certezze, le abitudini, non sempre portano al successo. E che violarle, spesso, può essere vantaggioso. Da questo principio partono Beau Fraser, David Bernstein, Bill Schwab, tre brillanti pubblicitari per il libro «A morte le vacche sacre» (editore Elliot) dedicato alla picconatura sistematica - e molto ironica - di ogni affermazione accettata acriticamente. Lo scopo del volumetto è aprire la mente ai manager, aiutarli a vincere le loro battaglie aziendali e fare utili a palate invitandoli a essere creativi, a non fidarsi delle vecchie regole tramandate con sacralità, come le mucche induiste del titolo. Ma la lettura può giovare anche a chi non ha aspirazioni meramente capitalistiche, e non vuol fare della propria vita uno stucchevole conto corrente. Perché evitare i luoghi comuni fa bene anche all’esistenza quotidiana. E perché di finti guru, condottieri incapaci, governanti imbelli, sono piene le piazze e le città. Il cliente ha sempre ragione, si dice. Invece non è vero. Il cliente «non» ha sempre ragione. Dimostrazione principe è quella di Henry Ford, quello delle macchine, che diceva: «Se avessi chiesto ai clienti cosa volevano, mi avrebbero risposto: ”un cavallo più veloce”». Allo stesso modo «non» tutti meritano una seconda occasione, nelle aziende e nel business. Fidarsi delle ricerche, delle statistiche, dei numeri? Ottimo. Ma è meglio affidarsi all’istinto. Le indagini di mercato, per esempio, avevano caldamente sconsigliato il tè freddo in Cina, il «gangsta rap» a Los Angeles, i film storici più lunghi di due ore che si sapeva come andavano a finire, tipo «Titanic». Qualcuno decise di infischiarsene di quelle dotte e scientifiche conclusioni e azzeccò prodotti di enorme successo. Altra massima molto citata nella cultura aziendale è «concentratevi sui numeri, il resto verrà di conseguenza». I tre autori citano il destino della Sunbeam, una grande azienda americana che produceva elettrodomestici e andò in crisi. Per risollevarla venne chiamato un mago dei numeri, uno che tagliava personale e rimpinguava i bilanci. All’inizio andò bene, poi tutto finì a ramengo, con tanto di crollo in borsa. «Nel disperato tentativo di far quadrare i conti, si era dimenticato di far quadrare gli affari». Bisogna anche sbarazzarsi di luoghi comuni, tipo, la carogna («lo stronzo» dicono gli autori) in ufficio, se è bravo, serve alla causa. Perché non è affatto vero. Quello che tratta i sottoposti come un sergente dei lagunari, si vanta di essere cinico, alla fin fine rischia di distruggere il morale collettivo. Così come l’idea che la competizione sfrenata, la lotta di tutti contro tutti nelle aziende, porti al meglio è errata. Perché anche se la vita non è un paradiso, dove il giusto e il bene vengono sempre premiati, trapiantare Darwin negli uffici alla lunga è deleterio: la paura di perdere il proprio posto, il doversi guardare continuamente le spalle dal collega di scrivania, fa scialare un sacco di tempo e di energie creative. Lavorare in collettivo, «fare squadra» come oggi va di moda sostenere, non è sempre cosa buona e giusta. Perché la storia dell’umanità dimostra che le grandi idee rivoluzionarie - dal cerotto al kevlar - sono frutto di ingegni singoli, bislacchi e anticonformisti. Ciò detto, è anche vero che l’armonia del gruppo è fondamentale; e che il leader non sempre deve essere ciecamente seguito. Perché talvolta sbaglia e porta il branco al disastro. E poi, diffidare di tutti quei manager che debuttano con frasi tipo «te la dico fuori da denti, ma...», «Bisogna fare sistema, che ne dici?», «Mi sembra un po’ rischioso, e se invece...», «C’è un solo modo per rimettere in marcia l’azienda ed è questo...», perché alla fine propongono una vacca sacra, cioè una finta verità. Le regole, i numeri, gli istogrammi in power point, le certezze, servono, ma solo per essere infrante continuamente. Per pensare il futuro (ovvero per vivere, visto che ogni istante della nostra vita è già un pezzo di futuro che si trasforma in passato) bisogna guardare al passato cercando aiuto e consigli, ma mai considerarlo un vincolo che condiziona. Diceva cose simili anche Nietzsche (Sull’utilità e il danno della storia per la vita), ma il libro «A morte le vacche sacre» lo ribadisce, in parole molto più povere e divertenti, esortando a inventare, sperimentare, rischiare, sorprendere. Più o meno come a poker, quando occorre bluffare e rischiare contro qualsiasi ragionevolezza. A proposito di regole disciplinari c’è un paragrafetto molto illuminante dedicato al «non fate cavolate». Frase tipica che i capi o i genitori ripetono come un mantra a sottoposti e figlioli. Ovvio, che le cavolate non bisogna farle. Ma ribadirlo ogni istante può essere non solo inutile ma anche dannoso, perché gli errori madornali possono portare a grandi scoperte. Uno dei tre autori, per esempio, da giovane sfasciava una macchina dopo l’altra e non riusciva a superare i test di ammissione all’università (non preoccupatevi, dunque, madri e padri se il pagellino arrivato in questi giorni è disastroso): poi, crescendo, grazie alle tante cavolate è riuscito a combinare del buono nella vita. Altro aneddoto convincente. I ricercatori della Pfizer erano stati mobilitati a cercare un farmaco contro l’ipertensione. Dopo lunghi studi cominciarono a provarlo su esseri umani. La pressione nelle cavie non si abbassava d’un filo, ma li rendeva molto allegri ed arzilli. Avevano scoperto il Viagra. Una «cavolata» dal punto di vista scientifico, ma un grande passo per l’umanità. Bruno Ventavoli