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 2008  aprile 20 Domenica calendario

In cerca della password della propria vita. L’Osservatore Romano 20 aprile 2008 In una brevissima poesia il poeta statunitense Raymond Carver (1938-1988) scrive: «E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto/ Sì/ E cos’è che volevi?/ Potermi dire amato, sentirmi/ amato sulla terra»

In cerca della password della propria vita. L’Osservatore Romano 20 aprile 2008 In una brevissima poesia il poeta statunitense Raymond Carver (1938-1988) scrive: «E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto/ Sì/ E cos’è che volevi?/ Potermi dire amato, sentirmi/ amato sulla terra». l’ultima poesia che Carver scrisse prima di morire prematuramente per un tumore ai polmoni. Una poesia del genere, scritta con addosso la consapevolezza della morte imminente, ci mette subito nella prospettiva giusta: essere uomini spirituali significa infatti porsi grandi questioni, questioni di vita e di morte, la questione di come stare al mondo, la questione di ciò che si vuole veramente da questa vita. Se così non fosse la vita spirituale sarebbe disincarnata, cioè sostanzialmente inutile, un «di più» per pochi privilegiati, una raffinatezza d’elite. E invece non è così. Ora, l’uomo fa sempre l’esperienza di vivere, ma spesso in maniera distratta, poco attenta allo stupore e alle domande: vive immerso nel concreto e nell’orizzonte delle cose che può manipolare e gestire. Ha cose da fare a sufficienza e di un certo interesse. Tutti noi ne abbiamo. Non ci poniamo la domanda su cosa vogliamo da questa vita. Siamo quell’uomo di cui ha scritto in Non chiederci la parola il poeta Eugenio Montale: «Ah l’uomo che se ne va sicuro, / agli altri e a se stesso amico, / e l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro!». Io non credo che la mia ombra si stampi sopra uno scalcinato muro e non condivido l’immagine di Montale, ma condivido il fatto che spesso io me ne vado «sicuro», cioè distratto, nella vita senza cioè accorgermi di ciò che rende la vita veramente vitale, viva. Mi vengono allora in mente le parole di Ugo Foscolo nelle Le ultime lettere di Jacopo Ortis, parole mutuate dai Pensieri di Blaise Pascal: «Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo; né cosa io stesso mi sia». L’uomo che pensa la propria origine, cioé che si pone di fronte all’origine di tutto ciò che è, si ritrova sull’orlo di un abisso. La realtà è, ma avrebbe potuto benissimo non essere. Questa coscienza può provocare o una sensazione di un’armonia con il mondo oppure una radicale disarmonia, un disagio di essere. Nel primo caso la realtà è compresa come dono e appare all’alba che rivela le cose con l,a loro freschezza dell’origine. Lo spettacolo della realtà è allora come assistere all’alba del mondo: s’apre la via allo stupore di chi è come diventato contemporaneo della creazione. Si avverte la soddisfazione compiaciuta di Dio che «vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Genesi, 1, 31). possibile, tuttavia, privilegiare l’abisso dell’angoscia: è la situazione in cui l’uomo si sente spaesato, si percepisce nel mondo come se non fosse «a casa propria», come se fosse «gettato» in questo mondo e abbandonato a se stesso. Allora la realtà e l’esistenza appaiono in una prospettiva ostile: nasce il sentimento dell’esistenza come condanna e prigione, come rimpianto o anche ripugnanza, secondo ciò che ci mostra il ricorrente motivo del «non fossi mai nato» da Sofocle a Giobbe, fino al malheur de l’existence dell’esistenzialismo. Lo scrittore svedese Stig Dagermann (1923-1954) in un suo lungo monologo che va sotto il titolo di Il nostro bisogno di consolazione appare di una lucidità assoluta: «Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui io dubito o sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto». Con calda lucidità e partecipazione Dangermann sa parlare dell’uomo come essere in attesa di un compimento che egli non può darsi da sé: posso «camminare sulla spiaggia - scrive - e all’improvviso sentire la spaventosa sfida dell’eternità alla mia esistenza nell’incessante movimento del mare e nell’inarrestabile fuga del vento”. Ecco la descrizione di una esperienza spirituale, forse non pienamente consapevole, ma certamente intensa, vera, vivace. Dagermann ha fortemente sollecitato la mia riflessione. Ma che cosa significa essere un uomo «consolato»? In questo scrittore svedese trovo tra le righe un’intuizione forte che diventa domanda: Che cosa rende l’esistenza vivace? Che cosa risponde a ciò che voglio da questa vita, anzi... cosa c’è alla radice stessa del desiderio? Cercando una risposta mi sono soffermato sulle pagine di due gesuiti di cui mi sono occupato di recente pubblicando una edizione italiana delle loro opere: Gerard Manley Hopkins e Francois Varillon. Nell’antologia di scritti di Varillon (1905-1978) dal titolo Traversate di un credente (Jaca Book 2008) ho trovato un’intuizione che mi ha preso il cuore, un’intuizione semplice, ordinaria. Un ricordo degli anni giovanili riportato in una intervista. Ed è questa: «L’ebbrezza dell’apertura alla vita. Avere tutta una vita davanti! (...) quel sentimento, quella botta di ebbrezza, quella gioia esultante! Salivo le scale a quattro a quattro!». Ecco ciò che mi colpisce: l’esultanza per l’ivresse de l’ouverture à la vie. Questo flash d’ivresse (lampo d’ebbrezza), al di là di ogni vuoto vitalismo, è l’espressione radicale di un modo di essere nel mondo segnato dall’ottimismo cristiano, capace di amare la realtà e la vita per quello che sono, in se stesse. Lo sguardo del cristiano è dunque chiamato a tendersi verso la freschezza del reale, è spinto a cercarla e trovarla, non indugia su ciò che è stagnante e induce a disperare o a credere che tutto finisce man mano che il tempo passa. In fondo alle cose vive una freschezza éblouissante, fiammeggiante, sorgiva, che l’uomo spirituale intuisce, spingendosi là dove solamente la fede e la grazia possono giungere. L’incandescenza accomuna Varillon a un poeta come il gesuita inglese Gerard Manley Hopkins (1844-1889), il quale comunica nei suoi versi visioni dinamiche, cangianti, fiammeggianti. In Hopkins tutto sembra percorso da una scossa. Il mondo è «carico della grandezza di Dio». Carico (charged) nel senso della carica elettrica. Parole quali flame, shining, lights (fiammeggiare, fulgore, luci) presenti nella sua poesia sono in questo senso alquanto esplicative. Così la grandezza di Dio «fiammeggerà, come fulgore da percossa lamina»: scuote e fa vibrare, imprime guizzo e slancio esuberante, sempre in movimento, mai in stallo. Hopkins esalta dunque Dio non in quanto stabile sicurezza dell’essere, ma in quanto autore delle differenze e delle energie polarizzanti, di ciò che è instabile nella durata e nella forma. Ecco dunque la certezza: «vive in fondo alle cose la freschezza più cara» (the dearest freshness). Ed è proprio questo verso che ho scelto come titolo della mia antologia della poesia hopkinsiana La freschezza più cara (Rizzoli 2008). La percezione di freschezza è un’intuizione spirituale potente perché vede la realtà uscire dalla mano di Dio. ciò che sant’Ignazio di Loyola chiama «consolazione» spirituale perché è vedere e amare le cose create non chiuse in se stesse, come puri oggetti, ma en el Criador de todas ellas. Nel mondo resta sempre immediatamente visibile «un’eco del dolce essere della terra all’origine». E così Hopkins si rivolge a Dio dicendo: «come acqua di fonte, / sgorgo dalla tua mano». Per il poeta io «sgorgo» (flow) da Dio: non sono qualcosa di «bell’e fatto», ma un flusso. Nel mondo Hopkins percepisce un eccesso, un’esuberanza, una «bellezza sbocciante», una «freschezza fumante», un «rigoglio di godimento giovane», una brulicante giovinezza nel reale da cui viene attratto irresistibilmente. Come per Hopkins, così per Varillon l’eternità di Dio è in se stessa source jaillissante, cascade ruisselante, et fraîcheur de l’amour (sorgente che sgorga, cascata spumeggiante e freschezza dell’amore). Dio è autodébordant, «autotraboccante». La sua santità è la sua gloria che trascende ogni limite. Nelle vive parole di Varillon la gloria di Dio è «la pienezza dell’esistenza, la sua intensità, la sua densità, il suo peso. Se la santità è la sostanza stessa del fuoco, la gloria è ciò che l’avvicinarsi ad essa ha di intollerabile e di fascinoso». Prosegue Varillon: «Se fosse possibile suggerirne qualcosa da lontano, bisognerebbe unire paradossalmente la leggerezza alla gravità, l’aquila al basalto, la danza alla colonna, tutto ciò che vi è di robusto e tutto ciò che vi è di aereo in quello che chiamiamo Bellezza». La partecipazione dell’uomo a questa gloria eterna sempre nuova di Dio è definibile con le parole «giovinezza, stupore, desiderio» o, con le parole di sant’Agostino, «insaziabile sazietà»: Te volo, iustitia et innocentia, pulchra et decora honestis luminibus et insatiabili satietate ( Confessiones, II, 10. 18). Queste sono le parole che caratterizzano l’uomo spirituale. La stessa creazione è da intendersi come incessante novità, lo sgorgare ininterrotto della novità. Il mondo, scrive Varillon, «non cessa di essere in genesi». Un uomo che ha fatto l’abitudine al mondo, che si è «abituato» ad esso, che lo vede come oggetto e non come energia, è un uomo che fa fatica a discernere nel mondo il dito di Dio. E invece quel dito è lì, pronto ad essere avvertito sensibilmente, come scrive Hopkins: I feel thy finger and find theé (sento il tuo dito e ti trovo). L’uomo che Varillon ha in mente è un uomo che percepisce il suo destino come qualcosa di aperto e di inimmaginabile. Il cristianesimo, dunque, non è affatto una ricetta per essere infallibilmente felici: è invece una «iniziazione alla vera grandezza». Questa visione è dinamica. La sua definizione è data dal grado comparativo (né positivo né superlativo, per indicare appunto la dinamicità) dell’aggettivo Magnus, cioè magis, maggiore. Per Varillon l’uomo è sempre in divenire, mai è compiuto, chiuso. Scrive nel suo folgorante Un abrégé de la foi catholique che «l’uomo non è qualcosa di «bell’e fatto»: il «bell’e fatto» è incompatibile con l’amore e con la libertà»; e la storia è un «cantiere nel quale si gioca la grandezza della libertà umana. L’uomo è sempre «in costruzione», incompiuto, pieno di promessa. Questa passione per la vita è la stessa che può spingere una bambina, Mary Ann, deturpata al viso da un tumore, a stringere «con tanta forza un hamburger da precipitare al’indietro dalla sedia senza lasciarlo cadere». Chi è Mary Ann? A questo punto vi racconto una storia che è legata alla grande scrittrice statunitense Flannery O’Connor (1925-1964). Nel 1960 un gruppo di suore chiede alla scrittrice di scrivere il ritratto di Mary Ann, una bambina deceduta a causa di un male che l’aveva anche sfigurata, pur senza fiaccare la sua allegria e il suo buon animo. Ecco la lettera di suor Evangelist nel racconto della scrittrice: «Nel 1949 una bimba di tre anni, Mary Ann, venne accolta come paziente nella nostra casa. Si rivelò una bambina straordinaria, e visse fino all’età di dodici anni. Di questi nove anni molto merita di essere raccontato. Pazienti, visitatori, suore, tutti furono in qualche modo influenzati da questa bambina malata, anche se nessuno pensava a lei come a una malata. vero, era nata con un tumore che le copriva un lato del viso; un occhio le era stato tolto, ma l’altro brillava, ammiccava, danzava birichino, e dopo averla vista una volta non ci si rendeva più conto del suo difetto fisico, ma si riconosceva soltanto il suo spirito splendidamente coraggioso e si provava gioia per averla incontrata. Dunque la storia di Mary Ann deve essere scritta, ma chi potrebbe farlo?». La O’Connor si rifiuta, sentendo estranea a sé qualunque forma di edificante agiografia, e lascia il compito alle suore stesse, che lo portano a termine. Tuttavia resta colpita nel profondo dal mistero di Mary Ann. La scrittrice vede il volto imperfetto e sfigurato della bambina non «deturpato», «brutto», come se la sua fosse una condizione oggettiva, data e chiusa in se stessa irrimediabilmente. No, il suo volto è definito come «incompiuto» (unfinished). L’incompiutezza richiama un compimento, la messa in moto di energie sopite, la capacità di mettere persino la negatività di un volto sfigurato. La condizione di incompiutezza, resa drammatica dalla malattia, non è per la O’Connor motivo di angustia né occasione propizia per meditazioni dolenti - per quanto legittime - sulla debolezza e sulla fragilità dell’esistenza. Ciò che però più colpisce è il fatto che non ci sia spazio neanche per naturali e profonde domande sul dolore innocente né per quelle riflessioni sulla morte, che hanno caratterizzato il Novecento letterario in alcune sue altissime espressioni. La cifra del male non è la détresse, né l’angoscia, ma l’incompiutezza, la condizione di essere in attesa di un compimento, che però mobilita un’azione creativa (creative action) e continua (continuous action) per la quale tutto, beni e mali, sono risorse. Aveva ragione Varillon: l’uomo è sempre in divenire, mai è compiuto, chiuso in se stesso. L’uomo è sempre «in costruzione», pieno di promessa. L’uomo spirituale è colui che ha un occhio profetico sulla vita e sul mondo: essere uomini spirituali significa vedere il mondo come realtà in attesa di un compimento. Flannery O’Connor è stata una donna spirituale perché capace di vedere che il mondo è «in corso d’opera» e così può scrivere in maniera «scandalosa» per la sensibilità comune: «quando guardiamo in faccia il bene possiamo trovarci di fronte ad una faccia come quella di Mary Ann, piena di promessa». Sì, la faccia deturpata della piccola malata è full of promise. Del resto, quando una vita prende forma? Quando davanti ad essa si aprono possibilità. Una vita prende forma non quando è determinata, necessitata, ma quando davanti ad essa si dispiegano opportunità, aperture, possibilità: in una parola, quando essa è piena di promessa. Vivere è «abitare nella possibilità”, come ha scritto la poetessa Emily Dickinson (1830-1886): I dwell in possibility (P 657). E invece la situazione dell’uomo d’oggi sembra essere di sazietà, di soddisfacimento dei bisogni immediati, di una vita media agiata. Per il credente la vita è apertura totale alla possibilità. Questo ha una conseguenza: che essa è «criptata!, come scrive san Paolo, in Dio (Colossesi, 3, 3). L’uomo spirituale non ritiene di sapere quale sia il suo destino, ma sa che Dio ne ha la chiave. Anche gli eventi più contraddittori o terribili hanno una loro comprensibilità in una password che è conosciuta solamente da Dio. Il credente sa che la sua vita è protetta da questa password. Sa inoltre che lo attende una «decifrazione» del suo destino. La criptazione e la non conclusione della nostra vita sono dimensioni fondamentali, come ci dice ancora Emily Dickinson: «Questo Mondo non è Conclusione. / Un seguito è al di là - / Invisibile, come la Musica - / Ma forte, come il Suono - / Fa segno, e poi sfugge». Leggiamo nella Gaudium at spes che l’uomo da una parte, «come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; dall’altra parte si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato a una vita superiore» (10). La sete d’infinito che l’uomo reca nel suo cuore, la tensione verso l’assoluto che lo anima (il suo cor inquietum o il suo desiderium visionis) non può venir saziata all’interno del mondo. L’uomo è in radice aperto alla possibilità. Agostino ha ben espresso questa situazione: «Ci hai creati per te, o Signore, e inquieto è il cuor nostro finché non riposa in te». Questo «riposo» non è sonno ma è pienezza, compimento delle possibilità della propria esistenza. L’itinerario che qui concludo suggerisce che per essere uomini spirituali occorre essere aperti alla vita nella sua freschezza originaria, mai essere assuefatti o «abituati» a ciò che invece è sorgivo: la vita, la realtà di ogni giorno, la creazione. Questa apertura significa anche apertura alla novità, all’innovazione. Essere innovativi non significa partorire nuove idee di continuo, come spesso si crede. Essere ,innovativo, per un uomo spirituale, significa innanzitutto comprendere come ciò che viviamo sia provvisorio e in attesa di compimento: un compimento che non è di questo mondo e che giungerà a me come un dono e non come una conquista. Non ho io in mano le chiavi della mia piena realizzazione in quanto essere umano. Allora la vita spirituale è un vivere nella possibilità più aperta, anche davanti alla fatica, al dolore o alla malattia, come nel caso di Mary Ann. E questo sapendo sempre che non si è mai soli e che la felicità è vera solamente se condivisa. Chiudo con un’immagine. Sant’Ignazio di Loyola «amava le grandi città perché esse erano i luoghi in cui la trasformazione della comunità umana si stava realizzando, e voleva che i gesuiti fossero coinvolti in tale processo. La città può essere per noi il simbolo dello sforzo di far avanzare la cultura verso il compimento umano» (Congregazione Generale S.I. 34°, 110). Per questo mi viene in mente New York. La prima volta che l’ho visitata è stato nel 2002 e da allora per un motivo o per l’altro l’ho raggiunta ogni anno. Però ricordo, e penso che lo ricorderò tutta la vita, l’emozione e l’ebbrezza provata sbucando sul marciapiedi da una uscita secondaria della Grand Central Station: il mio sguardo, non abituato, ha avuto dei momenti nei quali non sapeva dove e come posarsi: i grattacieli erano troppo alti per essere visti con un colpo d’occhio e le strade troppo strette e lunghe in proporzione. L’occhio guidava la mia testa verso l’alto. New York è un simbolo, per questo la cito: un simbolo di mondanità e di caos. Tuttavia, forse anche per le sue numerosissime chiese, specialmente lungo Fifth Avenue, New York è per me una città spirituale. L’ho avvertita subito così, nonostante la sua mondanità. Si prega bene a New York, anche semplicemente contemplando la sua vita brulicante. A ben discernere, l’uomo spirituale che passeggia per le grandi avenue newyorkesi ha un senso di grandezza, di imponenza, ma insieme di slancio. I grattacieli possono essere come foreste costruite dagli uomini, ma anche guglie di una città che punta verso l’alto. Sono un simbolo, l’immagine di una cattedrale immensa: la grande cattedrale che è il mondo. Antonio Spadaro