Il Sole 24 Ore 20 aprile 2008, Michela Catto, 20 aprile 2008
Femminista col velo. Il Sole 24 Ore 20 aprile 2008 Monaca senza vocazione, autodidatta, aggraziata ma zoppa, suor Arcangela Tarabotti trascorse i quarantotto anni della sua vita a Castello, sestriere veneziano dove era nata nel 1604 e dove, a sedici anni, entrò nel monastero benedettino di Sant’Anna
Femminista col velo. Il Sole 24 Ore 20 aprile 2008 Monaca senza vocazione, autodidatta, aggraziata ma zoppa, suor Arcangela Tarabotti trascorse i quarantotto anni della sua vita a Castello, sestriere veneziano dove era nata nel 1604 e dove, a sedici anni, entrò nel monastero benedettino di Sant’Anna. Uscì dall’anonimato riservato alle donne della sua condizione con la scrittura di opere, come il Paradiso monacale, l’Inferno monacale, il Purgatorio delle mal maritate, La semplicità ingannata o Tirannia paterna (finita all’Indice), e una intensa attività epistolare con patrizi veneziani e intellettuali, perlopiù appartenenti all’accademia degli incogniti di spirito libertino. Cercare le cause della subordinazione femminile e della monacazione forzata sono gli obiettivi dei suoi scritti. Il ritratto che ne emerge è tristissimo. Le monache sono "anfesibeni", figure con due teste all’estremità di un serpente che con efficacia esprimono la doppia natura della monaca che da una parte dissimula l’ira e l’odio dietro la mansuetudine e la dolcezza, e dall’altra è al contempo vittima e carnefice, succube delle angherie dei genitori e persecutrice delle giovani novizie. La rappresentazione della vita monacale è dura: indigenti le condizioni di vita, funerea la cerimonia della vestizione in cui drappi neri ricoprono il corpo della giovane come fosse una bara illuminata da due ceri, accompagnata da musica mesta di campane che segnano l’inizio della melanconica festa e che si mescolano alle «lacrime e ai singulti» della novizia nel giorno della sua «sepoltura». Non c’è vita autentica nella penombra delle celle, dove per le monache forzate tutto è finto e apparente: l’obbedienza è immaginaria, il silenzio solo dipinto o scritto, le cerimonie ridotte a mera forma, le monache sono solo maschere. Ma le opere della Tarabotti non sono solo di denuncia poiché il chiostro è parte del mondo, di quello che sta fuori dai parlatori, dalle inferriate delle celle e dai pesanti catenacci delle porte. Il monastero è un riflesso di quella società in cui i padri bugiardi e le madri snaturate rinchiudono con l’inganno le loro bambine, guidati da una irragionevole ragion di Stato di preservazione delle casate famigliari e del loro patrimonio che passa sopra a ogni volontà ed è disposta a qualsiasi sacrificio. In tutto questo favorite dalla complicità della Chiesa perché, scriveva suor Arcangela, «una sola volta in tutto l’Evangelo, il nostro sesso venne esortato a questa vita casta». Michela Catto