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 2008  aprile 20 Domenica calendario

Suor Virginia, un amore criminale. Il Sole 24 Ore 20 aprile 2008 Una mattina di marzo del 1608 una squadra di soldati spagnoli si fermò davanti al palazzo che apparteneva alla nobile famiglia Osio, accanto al monastero di santa Margherita, a Monza

Suor Virginia, un amore criminale. Il Sole 24 Ore 20 aprile 2008 Una mattina di marzo del 1608 una squadra di soldati spagnoli si fermò davanti al palazzo che apparteneva alla nobile famiglia Osio, accanto al monastero di santa Margherita, a Monza. Nel giro di pochi giorni fu raso al suolo e spianato dalle fondamenta. Sgombrate le macerie, al suo posto fu creata una piazza. Qualche tempo dopo vi fu eretta una colonna. In cima c’era una statua che rappresentava la giustizia. Sulla colonna, un’iscrizione latina diceva che Giovanni Paolo Osio era stato condannato a giusta pena per aver commesso atrocissimi delitti, e che quella colonna era stata eretta a perpetua memoria del fatto. La storia era cominciata – dieci anni prima – come tante altre storie di quell’epoca: sguardi a distanza fra una giovane monaca e un giovane aristocratico che passeggiava nel giardino di casa sua, contiguo al monastero. Lui era molto bello, o almeno così sembrò a lei, che sospirò a un’amica: «Si potria mai vedere la più bella cosa?». Lui scontava una condanna preventiva e autoinflitta agli arresti domiciliari, lei all’ergastolo: così almeno una monaca sua contemporanea definì la propria condizione di donna costretta alla clausura senza speranza di liberazione. Lui era anche un assassino, perché aveva ucciso un uomo: ma a quel tempo la vita umana dei plebei valeva assai poco e capitava di ucciderne uno per dispetto, rabbia o fatalità. Non ci si macerava di sensi di colpa. Lei, che si chiamava suor Virginia Maria, si annoiava, come si annoiavano tutte le ragazze che non avevano scelto di farsi monache, e l’avevano fatto per obbedire alla volontà dei parenti. Suor Virginia però era felice in convento. Aveva molte amiche, e due sopra le altre: suor Ottavia e suor Benedetta. Erano coetanee, avevano preso i voti insieme. Lei apparteneva alla nobile famiglia spagnola de Leyva, infeudata di Monza, loro erano solo due borghesi: un po’ le considerava le sue segretarie, un po’ le sue domestiche, un po’ le amava. L’uomo che Osio aveva ucciso era il fattore dei de Leyva: suor Virginia si sentì in dovere di denunciarlo. Osio dovette fuggire finché, un anno dopo, lei concesse il suo perdono e il bando gli fu tolto. Suor Ottavia e suor Benedetta la aiutarono a rivederlo. Le prestarono la cella, l’aiutarono a recuperare le lettere che lui le gettava in giardino. Osio non leggeva libri e non amava la letteratura. Gli piaceva l’azione, la guerra. Non sapeva scrivere parole che avrebbero conquistato il cuore di una donna. Così chiese aiuto a un prete suo amico, don Paolo, che aveva studiato e soprattutto conosceva meglio l’anima delle donne. Don Paolo scrisse a nome di Osio le lettere che fecero breccia nel cuore refrattario di suor Virginia. Si scambiarono qualche regaluccio: fiori finti, balle muschiate, un paio di guanti di seta. Seguirono casti incontri separati dall’inferriata del parlatorio. Sembrava una storia come tante altre, destinata ad alimentarsi nell’assenza e a spegnersi nel desiderio inappagato. Invece dopo qualche tempo Osio, stufo di mandarle lettere d’amore che non aveva nemmeno scritto, le chiese di incontrarla di notte (il parlatorio chiudeva ufficialmente al tramonto). Dopo qualche esitazione, suor Virginia accettò. Suor Ottavia e suor Benedetta la scortarono in parlatorio. Rimasero dentro, dietro la grata. Lei invece uscì. Venne l’inverno. Incontrarsi di notte nel parlatorio non riscaldato diventava disagevole. Osio chiese a suor Virginia di farlo entrare nella sua cella. C’era la scomunica per chi violava la clausura, ma lui la convinse che funzionava solo al contrario: per chi usciva dal monastero, non per chi entrava. Lei ci credette o finse di crederci. Di notte, suor Benedetta o suor Ottavia scendevano ad aprirgli la porta con le chiavi false fatte fare dal fabbro, e poi la richiudevano alle sue spalle. Col tempo, anche suor Silvia e suor Candida furono messe al corrente della relazione. Avrebbero preferito ignorarla, o fingere di ignorarla, come le altre monache. Perché sapendo avrebbero dovuto denunciare, e non facendolo erano già colpevoli. Dopo qualche mese, don Paolo rivelò a suor Virginia che non di Osio avrebbe dovuto innamorarsi, ma di lui – era lui l’autore delle lettere d’amore’. Osio del resto la tradiva, aveva un’altra donna. Lei, indignata, non credette né a una cosa né all’altra. Per vendicarsi, denunciò certi suoi peccati al cardinal Borromeo. Non si curò del rischio di essere denunciata a sua volta. Apparteneva alla famiglia più importante di Monza. Credeva di essere invulnerabile. Nel 1602 rimase incinta. Il bambino nacque morto. Suor Virginia ne fu sollevata e consegnò il cadaverino a Osio: gli raccomandò solo di seppellirlo bene, perché i cani non lo mangiassero. Decisero di rompere, tutti e due pentiti. Lui se ne andò in pellegrinaggio al santuario di Loreto, lei si ammalò. Stette a letto per quasi tre anni. Pregava Dio di perdonarla e di darle la forza di dimenticarlo. Ma Osio finì per tornare. Lei all’inizio lo respinse, poi gli aprì di nuovo la porta della cella. Si sentiva legata a lui al di là della propria volontà e perfino del proprio desiderio. Si convinse di essere stata affatturata. Conosceva la ricetta per liberarsi: se mangiava lo sterco dell’amante lo avrebbe odiato. La fida suor Ottavia raccolse il materiale, lo fece seccare, lo cucinò in brodo e col fegato alle cipolle. Non funzionò. Ormai la storia durava da anni. I due amanti divennero imprudenti. Qualche compagna notò movimenti strani. Una volta, di notte, mentre con un velo da monaca attraversava il dormitorio in compagnia di Ottavia, Osio si imbattè in una suora sconosciuta. Suor Ottavia spense il lume. Ma quella si accorse che si trattava di uomo. Altre notarono che suor Virginia aveva la "panza grossa". Lei non uscì più dalla cella. Le amiche le procurarono – tramite uno speziere compiacente, tale Rainerio – erbe, impiastri, tisane. Non funzionò. Nell’agosto del 1604, con l’aiuto delle quattro amiche, partorì una bambina. Viva, stavolta. La sera, Osio venne a prenderla e a portarla in casa sua, di là dal muro. La notte fu angosciante. Non sapeva cosa fare con quella creaturina affamata. Allora prese un guanto, riempì un dito di latte e glielo diede da succhiare. La neonata si quietò. Nessuno doveva sapere della sua esistenza. Suor Virginia avrebbe perso l’onore, il monastero, la famiglia, tutto. Ma Osio era un giovane scapolo di neanche trent’anni, non sapeva cosa fare. Si confidò con la madre. La signora mandò la piccola a balia a Milano. Sperava che il figlio la dimenticasse, e dimenticasse la madre della bambina. Quando la piccola si ammalò e fu sul punto di morire, nemmeno avvertì il figlio. Osio, però, lo venne a sapere: si precipitò a Milano e la riprese con sé. La portava alla madre, in monastero; qualche volta suor Virginia andava a trovarla in casa sua. Crescendo, la bambina le sembrò brutta – forse perché non voleva amarla, e la rifiutò. Il padre invece la amava. La fece battezzare – Alma Francesca – e la riconobbe legalmente. Sui documenti, inventò il nome di una madre qualunque. Suor Virginia non avrebbe mai potuto essere sua madre. Ormai mezza Monza sapeva. Chiacchiere, pettegolezzi, ricatti. Osio si mise in testa che don Paolo lo avesse denunciato al cardinale Borromeo e cercò di incastrarlo, nascondendo in casa sua armi proibite: don Paolo venne arrestato, e solo in seguito rilasciato. Osio minacciava, anche suor Virginia minacciava. Incutevano paura, e rispetto. Ma non a tutti. Al monastero di santa Margherita c’era una ragazza inquieta di nome Caterina che, come le altre ragazze povere del suo tempo, venivano mandate in monastero a prendere i voti per servire – come converse – le monache di buona famiglia. Spesso le converse odiavano le monache, che a loro volta le tiranneggiavano, e si vendicavano come potevano. Caterina lo fece nel modo più stupido, sporcando il letto di suor Degnamerita, una giovane che suor Virginia prediligeva perché sapeva suonare l’organo. La fece punire, e mettere in prigione. Caterina, indignata, disse che allora avrebbe denunciato lei e Osio al superiore. L’indomani, infatti, monsignor Barca era atteso in monastero per le elezioni: si dovevano rinnovare le cariche e le obbedienze. Suor Virginia fu colta dal panico. Se davvero la stupida parlava, per lei c’era il carcere. Per Osio il bando. Anche le sue amiche erano rovinate. Dopo un rapido conciliabolo, le cinque suore chiamarono Osio e gli dissero che Caterina doveva morire. Era notte, diluviava e la conversa imprigionata aveva paura dei fulmini. Suor Benedetta andò a tenerle compagnia, suor Ottavia consegnò a Osio il piede della bicocca, rinforzato col ferro, che aveva rubato nel laboratorio. Suor Virginia, scortata da Silvia e Colomba, raggiunse l’improvvisata prigione e cercò di convincere la conversa a tacere. Quella le rispose sgarbatamente che ne aveva abbastanza delle sue ciance. Osio entrò dalla finestra. Le cinque lo videro, non Caterina che gli voltava le spalle. Le sfondò la nuca con un colpo. Morì all’istante. Ottavia andò a lavare lo strumento e lo rimise nel laboratorio. Osio e le altre donne afferrarono il cadavere e lo nascosero nel pollaio, dietro una catasta di legname. Era quasi l’alba, e non avevano il tempo di farlo sparire. Osio ruppe il muro con la canna dell’archibugio, Ottavia gettò via i calcinacci. Continua u pagina 37 La mattina dopo, tutte dissero che Caterina era fuggita. La superiora la fece cercare. Entrò anche nel pollaio, ma non fece spostare la catasta di legname. La notte dopo, suor Silvia portò a Osio il sacco in cui un’altra suora custodiva il violino. Ci deposero il cadavere. Benedetta aiutò Osio a trasportarlo fino in casa sua. Lo vide trafficare nel buio: staccò la testa della morta, poi seppellì il corpo nella neviera. Infine partì. Le monache pensarono che era andato a disfarsi della testa. Se ne andarono tutte a dormire. Caterina era solo una povera conversa. Nessuno la cercò. Anche il fabbro che aveva fabbricato ben 52 chiavi false parlava troppo. Fu assassinato. Ma lo speziere Rainerio aveva la bottega nel cuore di Monza: aveva fornito erbe e intrugli alle persone sbagliate e non aveva capito di doverlo dimenticare. Forse, disseminando allusioni, sperava di capitalizzare i segreti di cui era a conoscenza. In gennaio, per intimidirlo, Osio gli sparò un’archibugiata. Ma lo speziere non capì la lezione. Stavolta fu aperta un’inchiesta. Il governatore spagnolo odiava i nobili italiani, così insubordinati, così ricchi. I beni di un assassino vengono confiscati. Osio fu arrestato durante il Carnevale del 1607. Lo rinchiusero nel carcere di Pavia. Fu aperta un’inchiesta anche dalle autorità religiose. Suor Virginia incontrò il cardinal Borromeo. Soggiogata dal suo carisma, negò, mentì, giurò che non avrebbe visto Osio mai più. In ottobre Osio riuscì a fuggire dalla prigione. Lo speziere fu ucciso ad archibugiate dal Rosso, un suo bravo. Numerosi testimoni lo riconobbero. Stavolta Osio era un pluriassassino fuggiasco. Non aveva più amici a Monza. Non poteva compromettere la famiglia. Supplicò suor Virginia di nasconderlo nel monastero. Lei rifiutò. Si era pentita, voleva cambiar vita. A Ognissanti suor Benedetta e suor Ottavia gli aprirono la porta e lo ospitarono nelle loro celle. Intanto però qualcuno aveva parlato. Un mattino di novembre, i superiori entrarono nel monastero e dissero a suor Virginia che doveva partire subito con loro: era in stato di arresto. Lei perse il controllo. Urlò, minacciò, sbattè la testa contro il muro. La caricarono di forza su una carrozza e la portarono a Milano. Osio rimase nascosto nella cella di Ottavia. Avevano scavato una nicchia nel muro, dentro il camino, e lì si nascondeva durante le ispezioni delle superiore. Le altre monache si accorsero che Ottavia portava i pasti a qualcuno. Osio non sapeva dove andare, né cosa fare. Ma dopo qualche giorno abbandonò il monastero, dove la trappola si stava chiudendo, e si cercò un altro nascondiglio. Il 27 novembre il vicario criminale cominciò gli interrogatori e Benedetta si rese conto di essere perduta: lei che, a differenza delle altre monache di santa Margherita, sapeva cosa era successo alla conversa, cominciò a temere che le avrebbero tagliato la testa. Richiamò Osio. Per anni lo aveva aiutato a entrare nel monastero. Ora lui doveva aiutare lei a uscirne. Osio non voleva saperne. Era preoccupato per la sua donna, che non sapeva dove fosse, per la sua bambina di appena tre anni rimasta con la nonna, per se stesso. Non gliene importava niente di Benedetta. Però, per un qualche sussulto di lealtà, acconsentì. Il 29 novembre aprì una breccia nel muro del convento. Prima di fuggire, Benedetta avvisò l’amica Ottavia. Questa esitò, perché non conosceva il mondo, non avrebbe saputo né voluto vivere fuori dal monastero. La convinse la paura. Fuggirono tutte e due. Osio disse che le avrebbe accompagnate fuori Monza. Poi dovevano cavarsela da sole. Costeggiarono il Lambro. Passando davanti alla chiesa di santa Maria delle Grazie tutti e tre si buttarono in ginocchio e pregarono la Madonna. Poi ripresero il cammino. A un tratto, Osio si fermò e spinse Ottavia nel fiume. Siccome lei sapeva nuotare e non annegava, anzi, si aggrappava ai cespugli della riva chiedendo perché mai le facesse questo, lui la colpì in testa con il calcio dell’archibugio. Colpì e colpì finché lei non perse i sensi. Benedetta, pietrificata sulla riva, non mosse un dito per aiutare l’amica. E quando Ottavia fu scomparsa nell’acqua, Osio e Benedetta ripresero il cammino. La condusse in una cascina abbandonata, le diede un pezzo di formaggio e un brocca, disse che sarebbe tornato, e se ne andò. Lei lo supplicò di restare, temendo che non sarebbe tornato. Infatti, perché mai Osio doveva farlo? La logica gli imponeva di fuggire più lontano che poteva. All’alba del 30 novembre un essere stracciato, coperto di sangue, con la pelle staccata dal cranio e la testa sfondata, supplicava aiuto nei pressi del mulino sul Lambro. Un contadino si avvicinò, cauto. Quando l’essere si presentò come suor Ottavia Ricci, monaca fuggita da santa Margherita, per timore di punizioni il contadino rifiutò di aiutarla. Le diede però un bastone. Penosamente, Ottavia si strascinò fino al monastero di santa Maria delle Grazie. Il frate guardiano la soccorse. Poche ore dopo, Ottavia veniva interrogata dal magistrato. Stava morendo. All’inizio tacque, o depistò. Non voleva danneggiare la sua amica Virginia , «per la quale avrei messo la vita, come ce la metto sendo per questa causa a fine della vita mia». Disse che si sarebbe fatta uccidere piuttosto che parlare contro di lei. Ma non poteva mentire davanti alla morte. A poco a poco confessò. Anche che Osio aveva cercato di ucciderla: ma capì che aveva fatto quel "tradimento" per paura che lei sotto tortura avrebbe confessato. Non gli serbava nemmeno rancore. Ma Osio non sapeva che Ottavia era sopravvissuta. La notte del 30 novembre, come promesso, tornò a prendere Benedetta. Arrivarono a un boschetto: nella radura c’era un pozzo profondo 32 braccia. Mentre ancora Benedetta si chiedeva cosa ci facessero lì, Osio la gettò dentro. Poi fuggì. Tentò di salvare la donna che amava, e scrisse una lettera infame al cardinal Borromeo. Disse che suor Virginia era innocente. Denunciava come colpevoli, corruttrici, demoni e "bestie", Ottavia e Benedetta. Tanto erano morte, e il loro debito lo avevano già pagato. Il 2 dicembre dei contadini sentirono un lamento provenire dal pozzo di Velate. Un giovane si calò dentro e ci trovò una monaca con la gamba e il bacino fratturati, ma ancora viva. La tirarono fuori. Anche Benedetta parlò. Sul fondo del pozzo i soccorritori trovarono una testa putrefatta avvolta in una pezza di tela muffita. Era un velo da monaca. I medici legali dissero che sì, la testa poteva essere di una donna, della conversa Caterina. Ottavia morì la notte di santo Stefano. Benedetta invece, anche se sciancata, guarì e fu processata insieme alle compagne. Osio fu condannato a morte il 26 febbraio 1608. Il 17 ottobre, suor Virginia fu condannata a essere murata viva in una cella di santa Valeria, il monastero delle peccatrici, dove avrebbe dovuto vivere per sempre. Anche Benedetta, Silvia e Candida furono condannate alla stessa pena. Tredici anni dopo furono graziate: si erano pentite, e vissero in penitenza fino alla fine dei loro giorni. Don Paolo se la cavò con tre anni ai remi sulla galea. I beni di Osio furono confiscati. La casa fu demolita. La madre anziana si ritrovò in miseria, con quella bambina orfana due volte che non sapeva come crescere. Osio andò a Venezia, vagò nelle campagne lombarde. Se lo catturavano vivo, sarebbe stato mutilato della mano destra davanti al monastero di santa Margherita, poi sarebbe stato condotto al luogo dell’esecuzione, torturato con le tenaglie roventi, infine appeso alla forca. Quindi il suo cadavere doveva essere tagliato a pezzi ed esposto nei luoghi dove erano stati commessi i delitti. La latitanza fu dura. Quando non gli rimase un solo uomo al fianco, quando non ebbe più un soldo, quando sentì sul collo il fiato dei cacciatori di taglie, Osio tornò a Milano. Era forse il 1610. In cerca di rifugio, si presentò al palazzo del suo migliore amico, un nobile di grandi ricchezze e valore. L’amico lo accolse. Forse promise di aiutarlo, di dargli denaro, vestiti, uomini. Organizzò perfino una festa per il fuggiasco. Lo invitò a scendere in cantina per scegliere il vino. Osio scese. Trovò un prete. Confessa, pentiti – gli disse – o qualcosa del genere. Osio capì. Il servo del suo amico gli fracassò la nuca, poi gli staccò la testa dal tronco. Il nobile la consegnò al conte di Fuentes, il Governatore di Milano, in cambio della taglia. Il Governatore la gettò in terra e la calpestò, perché tutti sapessero quale destino attendeva i criminali. Qualche notte dopo, la colonna infame venne abbattuta. Non fu mai più innalzata. La memoria del fatto – però – rimase ugualmente perpetua. Ma in un altro modo. Qualche frammento di questa storia lo lesse uno scrittore, in una antica cronaca. Gli fu impossibile dimenticarla. La comprese non come un giudice né come un avvocato né come un assassino, una volta per sempre. Se ne impadronì. Fu lui a erigere il monumento perpetuo. Si chiamava Alessandro Manzoni. Melania Mazzucco