Paolo Valentino, Corriere della Sera 24/4/2008, 24 aprile 2008
DAL NOSTRO INVIATO
FILADELFIA (Pennsylvania) – Doveva essere lo spettro della gara repubblicana, il caos denso di troppi candidati in lite perenne, che avrebbe definitivamente seppellito il Grand Old Party e aperto le porte alla nuova era democratica. Ma a nove appuntamenti dalla fine delle primarie, la paura di una «brokered convention», una convenzione negoziata, o per meglio dire di una «deadlocked convention », una convenzione bloccata, è il sentimento dominante nel campo progressista.
L’ennesima resurrezione di Hillary Clinton trascina
ad infinitum la corsa alla nomination democratica. E la memoria collettiva del partito corre ai traumi del passato, alle tante, troppe convention dove divisioni, risse, botte nel parterre e una volta anche la guerriglia (nelle strade circostanti) furono il preludio a sconfitte umilianti, dolorose e leggendarie per la loro dimensione.
Ricorre quest’estate il quarantesimo anniversario della Convenzione Democratica di Chicago del 1968, al culmine dell’annus horribilis che aveva visto gli assassinii di Martin Luther King e poi di Robert Kennedy, proprio quando la vittoria nelle primarie della California aveva fatto del fratello del presidente ucciso a Dallas il probabile candidato democratico alla Casa Bianca. Due drammi legati fra di loro si consumarono in contemporanea. Fuori, ai giovani dimostranti venuti a migliaia da tutta l’America per protestare contro la guerra in Vietnam, il sindaco democratico della città, Richard Daley, rispose schierando 12 mila poliziotti e dando l’ordine di attaccarli con gas e manganelli. Li assistevano 7500 soldati, 7500 uomini della National Guard e non meno di mille agenti del servizio segreto. Finì tra lacrime e sangue, 600 arresti e il celebre processo ai Chicago 8, fra i quali il leader hippie Abbie Hoffman.
«Tattiche da Gestapo», gridò nell’aula della Convention blindata il senatore del Connecticut Abraham Ribicoff, per denunciare la repressione. Daley, seduto tra i delegati di Chicago, si alzò in piedi urlando e agitando il pugno. Il partito progressista era rosso di vergogna, ma questo non gli impedì di scegliere come candidato, al primo scrutinio, il vice-presidente Hubert Humphrey, arrivato a Chicago senza aver mai vinto neppure una primaria, ma lo stesso ricco di delegati come consentivano le regole del tempo. Avrebbe perso a novembre contro Richard Nixon, per meno di 70 mila voti.
Il punto è chiaro: storicamente, per i democratici americani l’imprevedibilità dell’esito di una convenzione ha sempre o quasi annunciato disastri a novembre. Nel 1924 al Madison Square Garden di New York ci vollero 15 giorni, 103 votazioni e diverse scazzottate, cui non si sottrassero alcuni governatori, per dare la nomination a John Davis, della West Virginia, dopo che il newyorkese Al Smith e il segretario al Tesoro di Woodrow Wilson, William McAdoo, che aveva l’appoggio del Ku-Klux-Klan, si erano elisi a vicenda in 102 ballottaggi. Erano i Roaring Twenties, gin illegale e hot jazz. Nella platea congressuale, giusta la cronaca del Washington Post, si aggiravano «politici corrotti, cantanti Yiddish, soubrette, danzatrici di hula, indiani Sagwa, spazzini, pompieri, attori, attrici, poliziotti e scippatori». Occorre dirlo? Davis perse alla grande la sfida presidenziale contro Calvin Coolidge.
L’aveva persa anche un altro democratico, Stephen Douglas, nel 1860, sia pure ad opera di un (futuro) gigante come Abraham Lincoln. Per la cronaca, la Convention di quell’anno fu una delle più rissose e caotiche della Storia, riconvocata a Baltimora, dopo che a Charleston, in South Carolina, 57 votazioni non avevano sbloccato la contesa fra tre candidati.
Più vicino nel tempo, dopo che il trauma del 1968 convinse il partito a democratizzare le primarie, dando più potere agli elettori (prima di ripensarci ancora nel 1982 e creare i superdelegati per la campagna del 1984) la trappola fatta in casa è scatta altre volte. Nel 1952, con Adlai Stevenson, nominato solo al terzo scrutinio dopo una durissima lotta e poi sconfitto da Eisenhower. E ancora nel 1980, quando Ted Kennedy, vincitore di molte primarie, portò la sua sfida a Jimmy Carter fino a New York. Un duello epico, Kennedy dovette ritirarsi e non strinse neppure la mano al presidente al momento della nomination. Puntuale a novembre, venne la prima delle due vittorie a valanga di Ronald Reagan.
Paolo Valentino