Salvatore Bragantini, Corriere della Sera 24/4/2008, 24 aprile 2008
Sembrava un temporale agostano, ma il turmoil continua, non sappiamo ancora per quanto, forse nemmeno la stagione dei bilanci farà chiarezza
Sembrava un temporale agostano, ma il turmoil continua, non sappiamo ancora per quanto, forse nemmeno la stagione dei bilanci farà chiarezza. Bear Stearns è morta, l’Ubs, bastione della finanza, s’è mangiata mezzo capitale con rischi che non controllava, sedotta da un mercato sovraeccitato. Sono casi rari di follia, o c’è del metodo? preoccupato il Financial stability forum (Fsf), presieduto da Mario Draghi, che formula proposte dettagliate, mentre l’industria finanziaria vorrebbe cavarsela con quell’autoregolamentazione che pure ha fallito. Intanto un barricadiero Tremonti avverte che non si curano le malattie gravi con le aspirine. Magari ha ragione lui, ma il suo parere nel mondo conta meno di quello di Draghi, anche se piace alle tribune. Capiamo anzitutto quel che è successo: l’industria finanziaria ha bruciato risorse proprie (300 miliardi di dollari nei bilanci ’07) e dei clienti. Il management, intascate le laute prebende, se ne va laughing all the way to the bank, sghignazzando verso la banca. come se la Danone avvelenasse clienti e azionisti e Gm vendesse auto che non frenano, arricchendo i manager. Alla fine paga Pantalone, e allora intervenire si deve: perciò si cercano rimedi che non inibiscano l’innovazione finanziaria, cosa utile se cautamente maneggiata. Certo non basteranno le manciate di dollari che la Fed elargisce al sistema a spese di chi, all’estero, ne ha o di chi esporta in Usa: come disse Connally, ministro di Kennedy, il dollaro «è la nostra valuta, ma il vostro problema». Con l’inflazione Usa in salita, vuol dire che ne faremo un gran falò per scaldarci, come Stallone in Cliffhanger; costerà sempre meno del petrolio, avverte Ahmadinejad. E vai coi prezzi di case e azioni Usa, fino alla prossima bolla. Nessuno però ancora ha spiegato perché è giusto che la banche centrali assistano impassibili al gonfiarsi della bolla, e invece chiamino la Croce Rossa quando scoppia. La verità la dicono i vecchi, e il candido-gigantesco (non solo fisicamente) Volcker vorrebbe qualcuno che abbia forza e voglia di tener testa a Wall Street. Non sarà Bernanke a farlo, timoroso di rivedere il ’29; lui getta dollari dagli elicotteri, ma ha poche munizioni (solo 800 miliardi di dollari) e già c’è chi parla di salvataggio della Fed. Intanto la Banca d’Inghilterra lancia un nuovo schema da 50 miliardi di sterline per far ripartire, ma su basi sane, il credito. Essa, per scongelare gli attivi immobilizzati delle banche, li compra a sconto dando titoli di Stato in cambio, ma lasciando a loro il rischio di credito. Che paghino le loro follie. Guarda più lontano il piano di Draghi, che prevede requisiti di capitale più severi, a protezione dei rischi degli strumenti più complessi, un giro di vite sul rating epiù trasparenza nei bilanci. C’è poi la questione dei credit default swap, strumento di assicurazione dei crediti: ne girano per circa 50.000 miliardi di dollari. Nessuno sa cosa avverrebbe in una crisi transnazionale (o peggio transatlantica) a essi legata. Si aggiunga che il prestatore di ultima istanza nella zona euro è la Bce, ma la sorveglianza sulle banche è nazionale: ne derivano rischi enormi in caso di crisi, legati sia alla prontezza della reazione sia alla ripartizione dell’onere. Di qui le proposte di Padoa-Schioppa (un po’ trascurate dai suoi colleghi) per una sorveglianza europea più efficace. Speriamo che Tremonti, deposto il bisturi, ne prosegua l’azione. Quanto all’industria finanziaria, se vuol prevenire interventi esterni deve riformare la remunerazione del top management: troppo grande è oggi l’incentivo a rischiare i soldi della banca per incassare i relativi bonus. Mal che vada, uno se ne va via laughing all the way to the bank. Così non può durare.