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 2008  aprile 23 Mercoledì calendario

Alla fiera dell’Est l’islam è un affare La Stampa, mercoledì 23 aprile Cibo «halal», vestiti «halal», viaggi, case, medicine e rossetti «halal» e naturalmente finanza «halal»

Alla fiera dell’Est l’islam è un affare La Stampa, mercoledì 23 aprile Cibo «halal», vestiti «halal», viaggi, case, medicine e rossetti «halal» e naturalmente finanza «halal». Miliardi e miliardi di petroldollari - ben più appetibili dello svalutato biglietto verde - ma anche miliardi di remimbi cinesi o di rupie indiane, cercano sbocchi assolutamente «halal», ossia «permissibili», leciti e approvati dal punto di vista della religione islamica. E gli sceicchi del greggio - ma soprattutto del marketing - che regnano a Dubai hanno fiutato il grande affare del religiosamente ed eticamente corretto preparandosi a trarne profitto. Così per tre giorni a metà maggio la città simbolo del nuovo Medio Oriente - nota in verità più per i centri commerciali e i grattacieli che non per le moschee - ospita «Vivere halal», la prima fiera popolare al mondo rivolta a tutto ciò che - sebbene i criteri siano tutt’altro che univoci - il Corano permette, contrapposto a tutto quello che è «haram», proibito. «Ci saranno famosi chef dell’area che dimostreranno come cucinare secondo i precetti religiosi - spiega Lesley Fair del Dubai International Financial Center, che organizza l’iniziativa - avremo un concorso di moda per giovani stilisti che rielaboreranno modelli occidentali secondo criteri ”halal”, per esempio applicando maniche lunghe ad abiti che altrimenti sarebbero poco pudichi». Per due giorni si lavorerà - poco - di forbici e - molto - di stoffa, il terzo giorno sfilata e premiazione. Il cibo, ovviamente, giocherà la parte del leone tra gli stand, perché il mercato da un miliardo e passa di musulmani fa gola - e non in senso alimentare - a molti. «Già oggi non un solo agnello che esce dall’Australia già macellato è privo del suo certificato halal», spiega Luca Gorlero, un italiano che dirige le nuove iniziative alla Tejari, una società di commercio via Internet che fa capo - come quasi tutto a Dubai - alla famiglia regnante e che sta studiando iniziative proprio in questo campo. «E oltre al cibo - dice ancora Gorlero - ci sono molti settori dove una vasta clientela chiede prodotti halal: dalle medicine, dove bisogna ad esempio avere la certificazione che le pillole non siano confezionate con gelatine animali di origine sconosciuta, ai rossetti, che devono rispettare anch’essi i precetti che si applicano agli alimenti». E poi, banche e finanziarie che seguono la legge islamica, lanciano carte di credito senza interessi - proibiti per l’appunto dal Corano - e hanno un apposito «sharia board», una sorta di consiglio d’amministrazione dove si applicano i principi religiosi oltre a quelli economici. Chi vuole investire secondo i precetti del Corano può stare così tranquillo. Ma anche il viaggiatore che cerca alberghi «halal» può rivolgersi a chi, come la multinazionale Kempiski, sta mettendo in piedi nelle principali città del Medio Oriente una catena di alberghi «no alcol» che si chiama Shaza, in arabo «profumo», o alle numerose compagnie aeree che pubblicizzano menù di bordo e servizi di viaggio islamicamente inappuntabili. Come spiega Homar Hijazi - manager in una delle società che fanno riferimento allo Sceicco Mohammed Bin Rashid Al Maktoum, primo ministro di Dubai - «l’obiettivo è sfondare su quel mercato ”halal” che consideriamo possa valere duemila miliardi di dollari». Le stime del Financial Times, più prudenti, si fermano a 850 miliardi, ma tant’è, il consumatore «halal» aspetta solo di essere scoperto. Anzi, scommettono a Dubai, non solo lui aprirà la porta - e il portafoglio - a beni e servizi religiosamente certificati. «Questo genere di scelte può essere anche adatto a molte persone che abbiano differenti fedi o vogliano fare una scelta di vita etica - insiste Lesley Fair - per esempio chi vuole essere sicuro di investire i suoi risparmi in attività che non finanzino il gioco d’azzardo o l’alcol». Tanto entusiasmo non è scalfito nemmeno dalla polemica scatenata proprio nelle ultime settimane dall’edizione araba di «Fortune», che ha dedicato la sua copertina alle «Star della preghiera», i predicatori islamici che con libri e apparizioni televisive accumulano redditi non disprezzabili, in testa l’egiziano Amr Khalid con 2,5 milioni di dollari. Anzi, che religione e affari possano andare a braccetto, specie a Dubai non scandalizza nessuno. Se «Vivere halal» sarà un successo, come sperano gli organizzatori, si saprà presto. Di certo è uno dei tanti segni che quella «porta» dell’Oriente che sono gli Emirati - Dubai, ovviamente, ma anche i cugini-rivali di Abu Dhabi - guarda sempre più ad Est. E’ là, non solo nel mondo musulmano, che la crescita è impetuosa, mentre dagli Stati Uniti e dall’Europa non arrivano certo segnali incoraggianti. Non a caso tra le migliaia di uomini-formica che giorno e notte si arrampicano incessanti sulle impalcature dei grattacieli - 218 contemporaneamente in costruzione solo a Dubai Marina, uno dei nuovi quartieri più chic della città - per uno stipendio che non tocca i 200 euro, gli indiani stanno sparendo. Cominciano a tornare in patria, attratti da un benessere che ora appare possibile anche là, e al loro posto sbarcano i cinesi. «L’epoca d’oro del lavoro a buon mercato dall’Asia per i costruttori del Golfo è finita», si lamenta già dalle colonne di un quotidiano del Bahrain, Abdulmajeed Al Gassab, vicepresidente dei costruttori del Golfo. Ma se quell’era tramonta, la prospettiva di altre epoche d’oro proprio in Oriente - con o senza la componente islamica - danno fiducia ai signori degli Emirati, sempre a caccia di nuovi commerci. La Cina, finora semplice esportatore di beni di consumo, sta scalando rapidamente posizioni nelle importazioni dagli Emirati e nel 2007 il suo interscambio con Dubai è cresciuto del 47 per cento. E la stessa India dove tornano gli emigranti del Golfo diventa un’opportunità. Maria Abdelrahman, manager della Nakheed, la più grossa società di sviluppo immobiliare di Dubai che ha costruito gli arcipelaghi artificiali di The Palm e The World, spiega che nei prossimi mesi proprio in India comincerà a lavorare la nuova Nakheed International, la società destinata a esportare il modello cementizio di Dubai anche all’ombra dei palazzi dei maharaja. Francesco Manacorda