L’osservatore romano 20 aprile 2008, Andrea Monda, 20 aprile 2008
Bussando alle porte del Pulitzer. L’America ha celebrato se stessa attraverso il prestigioso riconoscimento del premio Pulitzer assegnato a una delle sue «icone» più famose in tutto il mondo: il cantautore di Duluth Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan
Bussando alle porte del Pulitzer. L’America ha celebrato se stessa attraverso il prestigioso riconoscimento del premio Pulitzer assegnato a una delle sue «icone» più famose in tutto il mondo: il cantautore di Duluth Robert Allen Zimmerman, in arte Bob Dylan. Altri musicisti come George Gershwin e John Coltrane avevano ottenuto in precedenza il prestigioso riconoscimento letterario ma nessun rocker, anche se Dylan è stato premiato soprattutto nella sua veste di poeta, la motivazione del premio parla infatti del «profondo impatto avuto sulla musica popolare e la cultura americana attraverso composizioni liriche dallo straordinario potere poetico». Il fatto che Bob Dylan abbia vinto il premio Pulitzer suona per certi versi come uno scandalo, ma anche come una cronaca di una vittoria annunciata: pochi artisti come Dylan hanno saputo raccontare l’anima e la vicenda americana negli ultimi cinquanta anni. Un cantautore e un poeta quindi, ma soprattutto un artista americano; il saggio su Dylan più interessante apparso negli ultimi anni, quello di Alessandro Carrera pubblicato da Feltrinelli nel 2001 s’intitola significativamente La voce di Bob Dylan, una spiegazione dell’America e diversi articoli sono apparsi a seguito della notizia del premio, tutti a sottolineare l’assoluta «americanicità» del menestrello di Duluth. In estrema sintesi possiamo dire che questa peculiarità risiede nella inarrestabile ripartenza che Dylan opera da quasi cinquant’anni (Restless Farewell, Addio senza pace, cantava nel 1963, come a dire che non ci si ferma mai e siamo solo di passaggio). Anche il suo essere sempre on stage a cantare e ricantare (attraverso il meccanismo dell’interpretazione infinita) vecchie e nuove canzoni, girando il mondo come un ebreo errante che percorre incessantemente i cinque continenti, indica che per Dylan c’è solo un nemico: la perfezione nel senso di perfectus, morto, mentre invece, comporre e suonare per lui sono tutt’uno. Tutto questo è molto americano, una terra che è davvero Forever young, per citare il titolo di una sua celebre canzone dedicata al figlio Jacob, anch’egli cantautore. Nel 1962 incide la sua canzone più celebre, Blowin’ in the wind e avrebbe potuto fermarasi lì, ma ha scelto la via della continua ricerca quando avrebbe potuto vivere di rendita sugli allori di un successo che in poco tempo ha fatto il giro del mondo, cantato da tutti, a proposito e a sproposito, fino a trovare una giusta collocazione (e una efficace «esegesi») il 27 settembre di trentacinque anni dopo quando Dylan stesso la cantò davanti a Giovanni Paolo II in occasione del 23° Congresso Eucaristico di Bologna del 1997. L’esegesi efficace fu quella che, improvvisando, fece lo stesso Pontefice, salutando le decine di migliaia di giovani accorsi: «La risposta soffia nel vento, dice la canzone, quel vento è lo Spirito!», disse il Papa. Pochi minuti prima un provato e goffo Dylan (è notoria la sua abissale timidezza) aveva salito, inciampando, i gradini del palco per salutare e stringere la mano a Karol Wojtyla. Dylan è sempre stato un artista dalla chiara cifra spirituale e, soprattutto, biblica. difficile trovare una canzone dove non ci sia, tra le righe, un riferimento al libro sacro per gli ebrei e i cristiani. Com’è noto Dylan nasce ebreo ma, spesso viene dimenticato, nella seconda metà degli anni Settanta ha attraversato una crisi religiosa che lo ha portato alla conversione al cristianesimo e anche se oggi non è semplice dare una definizione sul suo credo (ed è proprio questa la sua cifra più personale: l’indecifrabilità) è in corso una riscoperta, non solo a livello musicale di quella produzione a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta così fortemente intrisa dall’adesione al cristianesimo, anzi sarebbe meglio dire, a Cristo: interessante da questo punto di vista è il programma New Faith, in cinque puntate realizzato dalla Radio Vaticana, dedicato al «Dylan cristiano» e curato dall’esperto Giorgio Ceccarelli, mentre la casa editrice cattolica Interlinea di Novara pubblica in questi giorni il volume Parole nel vento che raccoglie i migliori saggi americani dedicati a Dylan finora tutti inediti in Italia. Il Dylan cristiano è un uomo di mezza età «rapito» da Cristo, la sua Solid Rock alla quale intende aggrapparsi. I believe in You, canta Dylan in una delle canzoni più intense di quel periodo, «credo in Te anche tra le lacrime e le risa, credo in Te anche quando siamo lontani, credo in Te anche il mattino dopo»: il rapporto non è con la dottrina cristiana ma con Cristo, Dylan è sì artista molto spirituale ma, proprio perché vero artista, tutt’altro che spiritualista. Andrea Monda