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 2008  aprile 20 Domenica calendario

Biografia di Cecilia Bartoli

Voci super. La Repubblica 20 aprile 2008 Il lungolago di Zurigo è semideserto nel pomeriggio di piombo che non promette primavera. I cigni si preparano alla bella stagione mettendo in scena un grooming coreografico e meticoloso. Poche anime sulla passeggiata: anziani con le badanti, bambinaie in grembiule blu indaffarate coi rampolli capricciosi che hanno in custodia. Sul muro dell´antico gazebo, una svastica neonazi che gli spazzini non sono riusciti a graffiar via. Nell´hotel de charme l´atmosfera è calda, serena. La radio di lingua tedesca trasmette alla rinfusa Mercadante, Petrella, Mahler. Lei fa il suo ingresso mentre l´Adagietto della quinta riempie la hall di una tale solennità che bastano i tacchi sul parquet a far chiasso. Poi la risata generosa riempie il salone di un´allegria tutta italiana. E la musica, per non esser da meno, si adegua; adesso è Percy Sledge che canta When a Man Loves a Woman. Al mezzo soprano Cecilia Bartoli anche il pop sta benissimo. «Da ragazza ascoltavo Pink Floyd, Rolling Stones, il Michael Jackson di Thriller e tutta la musica gitana», ricorda la cantante, quarantadue anni, che ormai da tempo vive a Zurigo con il suo compagno, il baritono svizzero Oliver Widmer. «Ero nel gruppo di flamenco Andalucia di Isabel Fernandez e il mio debutto nel mondo dello spettacolo fu proprio come ballerina. La Carrà ci volle a Pronto Raffaella, il varietà tv in cui il pubblico doveva indovinare quanti fagioli c´erano nel vaso. Volavo in motorino, tutta sudata, dalla lezione di ballo al conservatorio. Incoscienza giovanile. Ma una cosa ricordo con chiarezza: mio padre aveva una collezione di vecchi dischi di Aureliano Pertile e Tito Schipa. Quei signori cantavano e porgevano con una grazia infinita. Da loro ho imparato moltissimo. L´arte del suono filato di certi tenori mi stupiva, m´incantava». Chioma fluente, labbra carnose, seno generoso, contagiosa comunicativa mediterranea: sarebbe stata una perfetta ballerina di flamenco. Ma la tentazione della lirica era in casa. Mamma soprano, papà tenore. «All´inizio, cercavo di fuggire dall´opera. Fu mia madre a darmi la spinta, quando una domenica pomeriggio - doveva piovere moltissimo se decisi di restare in casa - disse: perché non proviamo a fare due vocalizzi? I risultati furono immediati, ma non pensavo alla carriera. Non è una strada in discesa, la nostra è una vita randagia, fatta di sacrificio, di viaggi (e io detesto volare). Per questo mio padre, che aveva una voce straordinaria, rinunciò alla carriera. Conobbe mia madre quando insieme vinsero il Festival dei Due Mondi di Spoleto, pronti per la carriera internazionale. Poi siamo nati noi, e alla fine degli anni Cinquanta per due che venivano da famiglie semplici non era facile. Lui romagnolo, lei emiliana, senza nessuno a cui lasciare i bambini durante le tournée. Si trasferirono nella capitale... Mamma avrebbe avuto il temperamento e la volontà per continuare… Papà invece era un po´ più pantofolaro, come diciamo a Roma». Cecilia non ha figli, da quasi un quarto di secolo è diventata cittadina del mondo. appena rientrata da Baden Baden, dove ha eseguito una versione concertante de La sonnambula di Bellini. «La mia storia è strana», racconta. «Tutto cominciò con Pippo Baudo a Fantastico 6. Frequentavo il conservatorio, quando un amico di famiglia venne a trovarmi. Mi disse che in Rai cercavano giovani talenti. Partecipai ad alcune audizioni in una situazione felliniana. C´erano prestigiatori, attori, pianisti, cantanti. Presero me e un basso sedicenne. Fu il trampolino di lancio. Mi videro altri musicisti, impresari e... Barenboim, che mi chiamò a sostituire una cantante per un omaggio alla Callas. Iniziai subito a studiare con lui dei ruoli mozartiani, poi arrivarono Karajan, Muti, Abbado e Nikolaus Harnoncourt, che mi ha spalancato le porte della musica barocca. Ma a Pippo sarò sempre grata, ci siamo rivisti a Lucca, l´ho invitato all´inaugurazione del progetto Malibran». Nella casa di Zurigo tutto parla di Maria Malibran (1808-1836). Cecilia colleziona qualsiasi cosa le sia appartenuto. «È stato divertente, perché mi ha permesso di conoscere la donna che in soli dieci anni di carriera ha influenzato il romanticismo, compositori come Mendelssohn, Bellini, Liszt. E anche la moda dell´epoca». Nella sua fulminante carriera, la Malibran fu la prima, insieme alla troupe Garcia (il padre, tenore andaluso, ma anche suo impresario), a portare in America la musica di Mozart. Il pubblico adorava l´artista, la donna, l´intellettuale che cantava, recitava, componeva, scriveva e suonava tre strumenti. «Era capace ogni sera di improvvisare le cabalette», spiega la Bartoli sgranando gli occhi, cercando con le lunghe dita di dar corpo al fantasma dell´antica diva. «Senza trascurare la vita privata, movimentatissima e scandalosa». A New York, Maria Garcia sposò Eugene Malibran, commerciante indebitato fino al collo di vent´anni più grande. Dopo un po´ la situazione si fece insostenibile. Di ritorno in Europa, a Parigi, s´innamorò del violinista belga Charles de Bériot (1802-1870). La sua vita di concubina divise l´opinione pubblica. Storia bellissima e tristissima, fatalmente romantica. Cinque mesi dopo il matrimonio, incinta del terzo figlio, la Malibran morì a ventotto anni per una caduta da cavallo. «Maria fu la prima diva, l´eroina romantica per eccellenza, l´artista che ruppe gli schemi, manifestando quelle emozioni che l´epoca dei castrati aveva cancellato. Con lei iniziò una nuova era. La sua personalità andò oltre la compostezza di Giuditta Pasta (1797-1865), la prima Sonnambula, e Isabella Colbran (1785-1845), la musa di Rossini». Quella per la Malibran è diventata una tenera ossessione per la Bartoli. Le ha dedicato Maria, l´ultimo cd (l´omonimo spettacolo arriverà all´Auditorium di Roma nella seconda metà di settembre ), ha indossato i suoi gioielli di scena e per il bicentenario della nascita della sua eroina ha organizzato una mostra che ha girato per l´Europa con un tir (proprio come quella di Elvis ha attraversato l´America), ultima tappa piazza della Scala, a Milano. «L´idea della mostra itinerante è iniziata nel momento in cui ho cominciato a collezionare lettere e cimeli, già all´inizio della mia carriera, quando Christopher Raeburn, il mio primo produttore discografico, mi regalò un ritratto della Malibran. L´idea era di organizzare una mostra nei foyer dei teatri, poi ho pensato che sarebbe stato noioso, Maria era un´artista in continuo movimento, una donna emancipata, moderna, colta (parlava tre lingue), un po´ folle, morta giovanissima. Una vita che ricorda quelle di Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison e tutte le rockstar morte prima dei trent´anni. Per me è la prima pop star». La Svizzera, dice, le ha dato tantissimo. Canta all´Opera di Zurigo da quando aveva ventuno anni. Poi per un lungo periodo è stata rapita dall´America. E in un batter d´occhio diventò la nuova diva della lirica. «Negli Usa cantavo due ore e firmavo autografi per tre. Mi volevano star, un´isteria che stava per farmi perdere il vero obiettivo per cui ero lì. Volevo fare musica, studiare, crescere. Ricordo le prime foto per le copertine dei dischi. Io ci tenevo a mostrare la vera Cecilia; indossavo il chiodo e loro mi volevano in Saint-Laurent. Insomma, non mi ci vedevo in quel cliché. Dissi: ho vent´anni e voglio farmi fotografare sulla motocicletta. Loro sgranarono gli occhi, la cosa fece scalpore. A un certo punto mi resi conto che stavo diventando una cantante... americana. Invece volevo essere europea, non avevo sposato il signor Malibran io. Anche se, beh sì, ci fu un momento in cui un certo Getty veniva a tutti i miei concerti. Ricco e bello, ma non bastava. Io non volevo vivere negli Stati Uniti, non ne volevo sapere dei loro compromessi. Ho vinto quattro Grammy, ho venduto sette milioni di dischi senza fare crossover (anche se hanno cercato in ogni modo di istigarmi a un´operazione stile Tre Tenori): di questo sono immensamente grata all´America. Fu proprio a New York che mi resi conto di avercela fatta, il giorno in cui la nonna Libia partì da Sorbole Levante, dodici chilometri da Parma, e a ottant´anni arrivò a Manhattan per venire al Metropolitan a vedere la nipotina adorata. La vidi così orgogliosa e felice al dopo-concerto organizzato da Alberto Vilar - allora era lo sponsor numero uno del Met, poi fu arrestato per frode - in una penthouse sontuosa, tra fiumi di champagne e caviale... lei che aveva fatto la contadina tutta la vita. Ma poi, in Italia, la trovai cambiata, quasi in soggezione. Come se, dopo il caviale, le lasagne fossero diventate un piatto plebeo. Le dissi: nonna l´America è una cosa, ma i tuoi fagioli bianchi dell´orto con sedano e carota valgono più di tutto. E per me è davvero così. Nonostante i grandi spettacoli, le emozioni, i trionfi, sono sempre rimasta attaccata alla mia terra». Guarda fuori, una pioggerellina insistente picchia contro la vetrata, la neve sulle montagne non ne vuol sapere di sciogliersi. Aggiunge: «Anche se non so più qual è la mia terra». «L´Italia non è il paese migliore del mondo per la musica, eppure abbiamo i più bei teatri e un pubblico fantastico», sospira. «La maggior parte del mio repertorio è italiano. Eppure io canto soprattutto all´estero. Sembra che l´Italia abbia perso la voglia di reagire. scoraggiata. Che tristezza. All´inizio, vivere lontana da casa la maggior parte dell´anno mi costava fatica. Adesso ci sono abituata. Che altro potevo fare? Sono andata dove c´era lavoro. Questo vale per me e per molti altri italiani. La mancanza di ingaggi ha portato all´esasperazione gli artisti e causato la ben nota fuga di talenti. E ancora c´è chi insiste che questa è musica d´élite, così i giovani, che in Germania riempiono i teatri, in Italia si tengono alla larga dalla lirica. A chi è rimasta un po´ di curiosità e ha voglia di scoprire queste meraviglie direi: alzati, spegni la tv, staccati dal frigorifero, rimettiti le scarpe, esci, vai a teatro e decidi da solo quello che ti piace e che non ti piace. I giovani devono rendersi conto che la musica di Vivaldi, Mozart o Rossini era il pop dell´epoca. Il flauto magico fu scritto per il popolo, non certo per l´élite. L´opera è la storia dell´uomo. Come sono attuali le donne mozartiane! In Così fan tutte le ho cantate tutte e tre, la serva Despina e le due sorelle ferraresi, Dorabella e Fiordiligi. Creature fragili eppure esuberanti, piene di conflitti ma anche dotate di uno spiccato senso dell´umorismo. Il mio sogno segreto? Fare il Don Giovanni nei panni del protagonista. Ma non avventuriamoci nell´impossibile. Impossibile?», conclude con un sorriso malizioso. Vuol dire: «Prima o poi lo farò». GIUSEPPE VIDETTI