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 2008  aprile 16 Mercoledì calendario

L’uomo con le ore di plastica. La Stampa 16 aprile 2008 La creatività è come il sesso. Meno ne parli e più lo fai»

L’uomo con le ore di plastica. La Stampa 16 aprile 2008 La creatività è come il sesso. Meno ne parli e più lo fai». Elmar Mock, di Bienna, a cavallo tra Svizzera francese e Svizzera tedesca, è il papà di Swatch, e il suo esordio non è incoraggiante. Poi diventa un fiume in piena. Parla della creatività: di quando assieme all’amico Jacques Müller ha partorito una delle rivoluzioni del costume e dell’industria di questo ultimo quarto di secolo: «è come il Rock and Roll», dice. Lo vedi, come si muove e sorride, e capisci che questo orologiaio atipico ha una sola molla: è spinto, come un bambino, dal piacere e come un bambino racconta la sua storia, racconta la fiaba di 25 anni fa quando è nato, un po’ per gioco e un po’ per caso, lo Swatch. «Ha presente il brutto anatroccolo? Ecco, l’orologio di plastica era il brutto anatroccolo», racconta Mock. Nessuno voleva produrlo, tanto meno comprarlo e il primo tentativo di venderlo a Dallas, nel 1982, fu un fallimento. «Una catastrofe», corregge Mock. Il distributore americano fu lapidario: non funzionerà mai. Allora raccontiamola dall’inizio, questa storia del brutto anatroccolo che comincia nelle fumose birrerie di Esslingen in Germania dove gli ingegneri Elmar Mock e Jacques Müller erano stati inviati a specializzarsi dalla Eta, società svizzera produttrice di movimenti per la quale lavoravano. Siamo nel 1978. Elmar e Jacques avevano 24 e 29 anni e passavano più tempo a scolare birre, ascoltare musica e fumare sigari che piegati sui banchi a prendere appunti. In quel tempo c’era chi rifaceva il mondo a tavolino «noi invece rifacevamo gli orologi - racconta Mock - facendo mattane, bevendo, eravamo in tutto e per tutto degli Urluberlu». Termine francese, intraducibile, un po’ come: mattacchioni illusi e svitati. Studiate le plastiche a Esslingen i due ingegneri tornano alla base nella severa Svizzera, ma continuano a sognare la rivoluzione dell’orologio. Elmar vuole giocare e desidera ardentemente una bellissima macchina a iniezione, per costruire pezzi di plastica. Il difetto è che la macchina costa 300 mila franchi di allora: uno sproposito per l’industria orologiera svizzera, in crisi nera, assediata dai giapponesi. Erano gli anni dei licenziamenti, di una quota di mercato mondiale crollata dal 30 al 9 per cento. E il bambino giocherellone voleva la sua macchina. Fu come un fulmine a ciel sereno la telefonata della segretaria di Ernest Thomke, direttore generale di Eta: «Fra due ore dal direttore». Erano le 11 del 12 maggio 1980, il momento topico della storia. «Aiuto, mi sono detto - continua Mock - abbiamo due ore per fare un disegno. Allora mi precipito da Jacques e come pazzi ci mettiamo a disegnare su un foglio di carta millimetrata. Un disegno da bambini con tanto di matite colorate e con quello ci presentiamo. Thomke era un tipo diretto, spiccio: ”Lei è pazzo....si rende conto”. Uscii come un cane bastonato, ma quel foglio di carta lo tenne il direttore: era il primo ritratto della nostra creatura, ancora non nata, era il primo Swatch. Poco dopo ricevetti una telefonata: quel disegno diventava il mio unico impegno, Thomke aveva capito che c’era una possibilità». Volete giocare? Avrà pensato il severo costruttore di meccanismi di precisione....e giocate. Fu così che Elmar e e Jacques si misero all’opera, non senza inciampi, come quello clamoroso di quando fissarono al prototipo le prime lancette: si muovevano all’indietro, da destra a sinistra. Ma i giovani ingegneri non si danno per vinti e il brutto anatroccolo si trasforma nel cigno della fiaba. Nella primavera del 1983 si vendono i primi Swatch a Zurigo e poi è la storia di questi 25 anni, un successo «incredibile e spaventoso». In mezzo alla storia di questa fortuna c’è Nicolas Hayek, mister Swatch: un ristrutturatore incaricato dalle banche proprio negli anni Ottanta di verificare se valesse la pena esporsi nell’industria orologiera. Hayek disse: «Sì» e al tempo stesso ha investito e fatto investire. «Non sono amico suo, ma non è certo un ladro né un bugiardo - dice Mock - semplicemente lascia dire quando parlano di lui come il padre dello Swatch». Oggi Mock è a capo di una società di trenta innovatori: «Il nostro è un Kholkoz capitalistico» e l’ha chiamata Creaholic. Alcolizzati di creatività? Gli chiedo: «Macché! Ha semplicemente un bel sapore dolceamaro. Casomai ha a che fare con Chocoholic e Sexholic. Ma questo non lo scriva, non vorrei fare scandalo in Italia». Insomma il piacere di trovare qualcosa di nuovo, posseduto dal demone dell’innovazione di rottura. La morale? «Anche i vecchi orologi possono essere moderni e le cose possono cambiare. Se non cambiamo noi lo fanno gli altri. La paura è il peggior nemico e guardare indietro, come troppo spesso fanno le ricerche di mercato» e Elmar Monk ride del suo riso ingenuo, come un bambino. «E’ quello che hanno sempre detto le mie donne». FRANCESCO MAIELLO