La Stampa 16 aprile 2008, Stefano Semeraro, 16 aprile 2008
Feticci I marchi dei campioni del passato sempre più ricercati. La Stampa 16 aprile 2008 Il campione meno famoso delle scarpe che indossa è nato in California ma vive da 37 anni a Hilton Head, Carolina del Sud
Feticci I marchi dei campioni del passato sempre più ricercati. La Stampa 16 aprile 2008 Il campione meno famoso delle scarpe che indossa è nato in California ma vive da 37 anni a Hilton Head, Carolina del Sud. alto, allampanato, con sottilissimi capelli un tempo biondi e ora decisamente tendenti al bianco, occhi azzurri, educatissimi baffetti old fashion e una grande prima palla. Si chiama Stan Smith, ha vinto gli Us Open e Wimbledon, è stato numero uno del mondo nel tennis fra il 1971 e il 1972, ma il suo più grande successo è stato firmare un contratto con la Adidas nel 1971. Un autografo sulle prime scarpe da tennis in pelle, bianche e immacolate, un piccolo fregio verde sul tallone. Il primo ad usare quel modello, nel 1965, era stato in realtà Robert Haillet, illustre Carneade. Poi arrivò il vecchio Stan, e l’oggetto diventò piccolo mito. Piccolo si fa per dire: oltre 30 milioni di paia vendute, compresa una limited edition messa in vendita in soli 12 negozi su tutto il pianeta. Un oggetto di culto che i tennisti ancora oggi continuano a calpestare e venerare, a collezionare come reliquia. «Un colpo di fortuna», ammette serafico Smith. «Chi le indossa neppure sa chi sono io». Stan è entrato nella Hall of Fame del tennis, a Newport, le sue scarpe nella storia del costume. Anche suo figlio Trevor, narra la leggenda, a quattro anni fu tormentato da un dubbio: «Papà, ma sei tu che ti chiami come le scarpe, o sono le scarpe che si chiamano come te?». Potere del logo e del feticcio, che si sostituisce alla passione primaria. Le Stan Smith sono uno dei totem dello sport vintage, del feticismo di nicchia in cui si rifugia chi non cede alla modernità dei materiali, al frullare del design predicato dai dervisci del marketing. Nostalgia magnetica, rimpianto di quando una maglia, una racchetta o una scarpa identificavano un campione, un’epoca, una squadra, un sentimento. Madeleine di stoffa e di cuoio, che rinforzano il successo dei canali tematici come Espn Classic, dove quarantenni e cinquantenni inteneriti oggi ritrovano con i lucciconi agli occhi le volée di Nastase, i sorpassi di Villeneuve (Gilles, naturalmente), gli scatti di Cruyff. Intermittenze del cuore sportivo che fanno anche la fortuna di siti internet e negozi specializzati - Soccer Scene a Londra, per dirne uno - dove è possibile reperire il feticcio «original», o quantomeno ben riprodotto, con il vecchio caro cotone al posto dei materiali tecnici di oggi. Se avete un collega di lavoro che si presenta in ufficio con la maglia del Perù di Teofilo Cubillas, edizione mondiali 1978 (capita, capita) sapete cosa significa. Il tennis è una riserva ricca, per il vintage. Basta pensare alle magliette a righine blu di Borg, wimbledoniane, aderentissime, con i bottoncini automatici e i colletti a punta, rispolverate recentemente dalla Fila e rilanciate al cinema già anni fa da Luke Wilson ne «I Tenenbaum». Alle scarpe Lotto «Newk» usate da John Newcombe, alle Superga immacolate diventate oggi scarpe trendy, alle racchette Dunlop Maxply usate da Rod Laver prima, e da John McEnroe poi. I primi attrezzi di Mac avevano ancora le venature, le ultime Maxply McEnroe di ligneo hanno solo il colore, steso sopra fibre più moderne, high tech. Resta l’impressione di rituffarsi in un passato felice, la stessa di chi oggi si commuove davanti al fregio a V delle Tepa Sport, le scarpette da calcio di Altobelli e Beccalossi, un marchio recentemente rilanciato sul mercato da una nuova ditta di distribuzione, o in discoteca salta dentro le Converse All Star da basket, leggerissime, in tela blu. Un tempo, pare impossibile, erano le scarpe da gioco che bastavano a contenere e sostenere le caviglie dei giganti della Nba. Dal parquet al tempo libero sono transitate anche le Air Jordan, le scarpe di His Airness, Michael Jordan. Più un simbolo - politico, di status, di appartenenza - che un paio di scarpe, diventate un marchio a parte nella linea di produzione della Nike, con 20 edizioni diverse dall’84 a oggi. Così famose e desiderate da ispirare il personaggio di Mars Blackmon («Lola Darling»), interpretato da Spike Lee (e il suo tormentone «Sono le scarpe? Sono le scarpe? Sono le scarpe?...») e da portare addirittura all’omicidio due 17enni: James David Martin nel Maryland, nell’89, e Demetrik Walker nel Texas nel ’90, infuriati perché le loro vittime si rifiutavano di consegnare le preziose sneakers. «Ucciderei per averle», non si dice così? Fortunatamente pochissimi sono di parola. Fra gli automobilisti alcuni snob continuano, nell’era digitale, ad utilizzare i vecchi cronometri manuali Eberhard, Omega o Tag Heuer, i rugbisti inseguono le vecchie maglie Canterbury degli All Blacks, in cotone doppio filo e con la felce grande sul petto. C’è da scommettere che «In amore niente regole», il film sugli albori del football americano con George Clooney e Renée Zellweger stimolerà la produzione di caschetti di cuoio vintage, usati anche nel rugby d’antan e tornati di moda oggi dopo essere scomparsi fra anni ’80 e ’90. Perché il fascino dello sport, ahinoi, sembra irradiare sempre più da un passato a cui ci lega una passione romatica, un po’ stucchevole, decisamente fetish. Stefano Semeraro