Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  aprile 13 Domenica calendario

Così parlò sant’Agostino. Il Sole 24 Ore 13 aprile 2008 Parlava seduto, il vescovo di Ippona, il berbero divenuto Padre della Chiesa latina

Così parlò sant’Agostino. Il Sole 24 Ore 13 aprile 2008 Parlava seduto, il vescovo di Ippona, il berbero divenuto Padre della Chiesa latina. In chiese dai muri massicci e poco illuminate, per tener lontana la morsa del sole africano. Dalla cattedra in pietra, un poco rialzata, Agostino vedeva negli occhi i suoi fedeli, stretti per capire e vedere meglio. Non predicava solo a Ippona, oggi Annaba - anche se lì era sempre presente per le festività importanti -, ma ovunque lo chiamassero o lo inviassero gli amici e i superiori. Possediamo centinaia dei suoi discorsi, o sermoni, o omelie, che zelanti compagni si incaricavano di trascrivere e, a volte, di far rivedere all’impegnatissimo vescovo. Eppure ancora oggi, dopo sedici secoli, abbiamo la fortuna di trovare nuovi inediti testi, spaccati della vita nordafricana tra quarto e quinto secolo. di pochi giorni fa l’annuncio di una scoperta: tre ricercatori dell’Accademia Austriaca delle Scienze, con sede a Vienna, hanno identificato in un manoscritto una ventina di sermoni agostiniani, dei quali quattro del tutto inediti, due solo parzialmente conosciuti. A imbattersi nel manoscritto, nel giugno dello scorso anno, è stata isabella Schiller, nel corso di un progetto di catalogazione di tutti i manoscritti di Agostino. «Finché tutti i manoscritti del mondo non saranno catalogati con esattezza», ci ha detto Clemens Weidmann, che ha lavorato allo studio e all’edizione dei nuovi sermoni, «altre scoperte come questa non sono assolutamente da escludere». Dorothea Weber ha contribuito in maniera decisiva a stabilire l’autenticità agostiniana dei sermoni di Erfurt, con prove sia interne (come il ritornare di alcune espressioni o citazioni bibliche) sia esterne: per esempio, i titoli di tre omelie si trovano, con le stesse parole e nello stesso ordine, nell’Indiculum, l’indice delle opere di Agostino redatto poco dopo la morte del santo da Possidio, amico e discepolo, suo primo biografo. I ricercatori di Vienna hanno accolto volentieri la proposta di concedere a «Il Sole-24 Ore Domenica» l’esclusiva mondiale di un capitolo di uno dei sermoni, per la prima volta da noi tradotto in lingua moderna. Siamo grati a loro e a tutti coloro che hanno permesso questo felice scambio (con lo studioso Giovanni Catapano, è giusto ricordare almeno Alberto Barbanti e i padri Vittorino Grossi e Robert Dodaro, dell’Istituto Patristico Augustinianum di Roma). Tre dei sei sermoni sono dedicati al tema dell’elemosina, quindi del distacco dai beni terreni. Due riguardano le feste dei martiri Cipriano e delle sante Felicita e Perpetua. Il primo, in particolare, ha attirato l’attenzione dei media, perché contiene un invito a non ubriacarsi durante i festeggiamenti in onore dei martiri. Questo ci potrebbe stupire: chi penserebbe mai a bere vino durante una processione o una messa? Ma non dobbiamo dimenticare l’epoca e il luogo dei discorsi di Agostino. Gli editti di Costantino e di Teodosio avevano sì reso dapprima libera e poi ufficiale la religione cattolica, ma il mondo romano era ancora profondamente pagano, nella mentalità e nei costumi. Quello dell’Africa del Nord , poi, non poteva in tutta fretta dimenticare i riti, le feste, i balli che avevano accompagnato secoli di vita sociale e religiosa. Così, se Monica, madre di Agostino, rimane colpita dalla severità di Ambrogio, che a Milano aveva vietato ogni libagione in onore dei defunti, suo figlio, vescovo dal 395, non perderà occasione per invitare a rendere onore ai martiri con il raccoglimento, piuttosto che con il ballo e l’ubriachezza. L’efficacia di tali richiami è tutta da provare, soprattutto se pensiamo ancora oggi alle feste religiose in tanta parte d’Italia, dove il martire, o la santa Pasqua, sono l’occasione per sfoghi di ogni genere, grida, mortaretti, corse, autopunizioni, eccessi, e così via. Infine, il "nostro" sermone, intitolato al tema della resurrezione dei morti. Non conosciamo l’anno della predicazione. Possiamo solo supporre che si sia data durante il tempo pasquale, per il riferimento alla resurrezione e al battesimo (che veniva somministrato durante la veglia del sabato santo). Con tono quasi pedagocico, i ricercatori viennesi hanno spiegato di aver scelto queste righe agostiniane per noi «perché i lettori del ventunesimo secolo sono pronti per le due grandi domande: che cosa significa credere e perché credere proprio ai profeti». Agostino richiama alla fede nelle cose che non si vedono, ricordando come nessuno avrebbe potuto credere, se non per fede, che i riti pagani sarebbero stati soppiantati da quelli in onore dell’unico Dio. Un riferimento alla diatriba della Città di Dio, l’opera scritta per difendere i cristiani dall’accusa di aver tolto a Roma la protezione dei suoi dei, e quindi di averla lasciata in balìa dei Visigoti (il sacco di Alarico è del 410)? Non è certo, perché non è certa la datazione. L’unica sicurezza è il continuo riferimento al vecchio e al nuovo, al prima e al dopo. Così comeprima occorreva fede per pensare alla fine del paganesimo, ora bisogna averne per credere alla resurrezione dei nostri corpi. Ora è il "prima", che conosce solo la decomposizione dei corpi morti. Dopo, risorgeranno. Ma che merito ne avrà chi crederà solo allora, perché ha visto? Il merito è tutto nel credere ora, contro ogni evidenza materiale. Temi di non poco conto, che scateneranno dibattiti di alta teologia, e guerre con la scusa di questi. Per noi, ora, un fotogramma dell’incanto che produceva la forza retorica su un pubblico quasi analfabeta, confuso, ma appassionato come il suo vescovo alle «cose che non si vedono». Maria Bettetini