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 2008  aprile 13 Domenica calendario

Kenya, l’altra ferita atleti come schiavi. La Stampa 13 aprile 2008 Cinque kenyani provano a riportare a casa la maratona di Londra per la quinta volta consecutiva

Kenya, l’altra ferita atleti come schiavi. La Stampa 13 aprile 2008 Cinque kenyani provano a riportare a casa la maratona di Londra per la quinta volta consecutiva. E’ roba loro, di Martin Lel, vincitore nel 2005 e 2007, di Felix Limo, primo nel 2006, di Luke Kibet, campione del mondo in carica. E anche di Sammy Wanjiru, giovinastro diventato famoso perché ha corso una sola maratona fin qui ed è arrivato primo e di Emmanuel Mutai che ha iniziato tardi, ma ha tagliato il nastro al secondo tentativo. Sono qui per vincere, per il premio di 55 mila dollari, per qualificarsi alle Olimpiadi e non sanno come si fa, la federazione tace, non specifica quali limiti ed entro quando o come dice Kibet «tiene le carte nascoste. I posti sono solo due e ancora non abbiamo parametri, poi si stupiscono perché i ragazzi scelgono altri Paesi». Detto da uno che si è preso una coltellata nella schiena pur di restare ad allenarsi in Kenya anche durante la guerra civile. Una scelta estrema, ai bambini che corrono per le strade non serve nemmeno la paura, lasciano la patria davanti alle promesse di un manager, si lasciano comprare: Qatar, Bahrein, Emirati Arabi, chiunque prometta un salario. A Londra, il Kenya ha ancora tutti i campioni sotto la stessa bandiera, però è una razza in estinzione. Isaiah Kiplagat, presidente della federazione, ha usato l’appuntamento inglese per lanciare accuse precise: «Ormai è come la tratta degli schiavi. Prima sceglievano atleti al top e li pagavano bene, mille dollari al mese, i bonus, le strutture per allenarsi, ora invece ci sono regole più definite, ma il fenomeno si è allargato verso ragazzini di 15 anni che potrebbero anche non avere nessuna possibilità. E, una volta cambiato passaporto, non c’è ritorno». Il ratto dei talenti è iniziato nel 2003, quando Stephen Cherono è diventato Saif Saaeed Shaheen, adottato dal Qatar: ha preso l’oro ai Mondiali, nei 3000 siepi, appena dopo il cambio di nazionalità. Per due anni si è andati avanti così, poi la Iaaf si è riunita prima dei Mondiali di Helsinki e ha messo un tetto: 3 anni fermi prima di gareggiare con il nuovo Paese. La proposta era di alzare il limbo a 6 anni, però la mozione ha perso 80 voti contro 90 e si è rimasti lì, a contare. Agli ultimi Mondiali di cross, quelli di Edimburgo, il Qatar è arrivato terzo, ci vogliono 9 elementi per una squadra, solo uno aveva il nome arabo, gli altri kenyani. Agli Indoor di Valencia, il presidente della federazione José Maria Odriozola ha ammesso di dover ormai respingere le offerte: «Almeno cinque o sei volte l’anno mi chiedono se voglio un potenziale spagnolo, a volte dei bambini si offrono da soli. E’ chiaro che c’è qualcuno dietro, gli spiegano come fare e a chi rivolgersi. Sono procuratori. Una volta erano talent scout, adesso fanno un viaggio in Kenya, guardano qualche gara, chiedono qua e là e si portano a casa quel che trovano. Come al supermercato». All’inizio non ci guadagnano niente, non serve più pagare tanto visto che farsi convincere a quell’età è semplice, spesso non c’è bisogno di promettere soldi perché bastano vitto e alloggio e l’idea di guadagni futuri. Se il ragazzino però inizia a fare sul serio il manager intasca dal 20 al 30 per cento su ogni incasso e chi non funziona dopo un po’ viene accantonato. Ormai è peggio che con i baby calciatori della Coppa d’Africa, il Kenya vive anche un po’ di mezzofondo e non è disposto a perdonare. Basta una singola corsa ufficiale, di qualsiasi livello, con un’altra divisa e perdi le origini. Il primo respinto alla frontiera è stato Mushir Salem Jawher, nato Leonard Mucheru. Ha corso per il Bahrein, poi ha avuto dei problemi, non gli hanno più riconosciuto la nuova cittadinanza e gli hanno rifiutato quella vecchia. Il doppio passaporto non esiste in Kenya, bisogna scegliere. Come ha fatto Luke Kibet, rimasto in mezzo alla faida tra Kalenjin e Kikuyu, ha smesso di correre per settimane e ora si ripresenta a Londra: «Mi hanno offerto asilo da molte parti, la Germania era pronta a ospitarmi, ma non potevo lasciare casa». Martin Lel ha scelto di allenarsi in Namibia, l’ultimo talento, Wanjiru, vive in Giappone e il nuovo arrivato Mutai fa base in Olanda. Radici labili nonostante la fede alla bandiera. Gli atleti da rincorrere per strada al ritorno dalle grandi imprese sono storia quasi estinta e anche questo sposta le nuove leve all’estero. La federazione kenyana chiede aiuto, Kiplagat vuole un dibattito sulla «politica di reclutamento», divieti, paletti con cui ridefinire i confini del Kenya. Alla riunione Iaaf organizzata a Londra, ha chiesto e ottenuto la creazione di un gruppo di lavoro che gestisca e argini la compravendita degli atleti. «Non è più solo un fatto sportivo. E’ già stato brutale vedere i nostri campioni andare via senza poter far nulla per trattenerli, stare a guardare anche mentre si prendono i nostri bambini è troppo». Chi non cede alle offerte vorrebbe più riconoscenza, Felix Limo come Kibet non è contento di queste qualificazioni a sorpresa: «Loro dicono: tanto basta andare al massimo e chi dimostrerà di essere al meglio sarà a Pechino. Non è il modo giusto, questa confusione non aiuta». GIULIA ZONCA