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 2008  aprile 13 Domenica calendario

Il guru dei cantanti ribelli. La Repubblica 13 aprile 2008 Abbagliante, cupo, ossessivo, narratore di universi deflagrati e mutazioni genetiche

Il guru dei cantanti ribelli. La Repubblica 13 aprile 2008 Abbagliante, cupo, ossessivo, narratore di universi deflagrati e mutazioni genetiche. Come poteva non affascinare il lato oscuro del rock? William S. Burroughs, scomparso nel 1997 all’ età di ottantatré anni, è stato un padrino eccellente, un anti-maestro se vogliamo, ma proprio per questo ancora più persuasivo e ammaliante. Sta di fatto che nessun altro scrittore è entrato così prepotentemente nell’ immaginario del rock. A lui si deve l’ involontario conio del termine Heavy metal, o meglio è stato il primo a usarlo in un suo libro, ancor prima che ci fosse una musica degna di assumerne il nome. Ci sono gruppi come i Soft Machine che hanno scelto il nome pescandolo dal titolo di un suo celebre romanzo, ci sono stati adepti ed estimatori, Dylan che ne ha riconosciuto l’ influenza, Patti Smith che ne parla come fosse un guru dell’ anti-materia letteraria, Mick Jagger che andava spesso a trovarlo e lo ha citato in un suo testo, Laurie Anderson che ha scelto la sua affermazione «language is a virus» e ne ha fatto un disco, uno spettacolo, una performance multimediale. La stessa Anderson lo ha coinvolto nei suoi dischi, l’ ha fatto declamare su lussureggianti basi musicali, e Burroughs ha perfino inciso un disco, ovviamente delirante, in compagnia di Kurt Cobain. Frank Zappa, ritenuto l’ artista rock a lui più vicino da un punto di vista formale (stessa lucida, cinica genialità, stesso gusto per le apocalissi fantascientifiche e per i mostri della condizione umana), gli ha reso omaggio leggendo un brano de Il pasto nudo, il romanzo culto per eccellenza, a una di quelle convention che organizzavano in suo onore e dove sciamavano artisti di ogni provenienza. Ce n’ è abbastanza per intravedere più che una generica affinità. Nei suoi romanzi, senza alcuna intenzione deliberata, scorre il sangue acido e corrosivo del rock, si percepisce l’ origine della sovrapposizione di immagini e frammenti visivi che tante volte leggiamo nei testi dei brani rock. Burroughs del resto di musica ha parlato spesso, ha addirittura compilato per qualche tempo una rubrica su Crawdaddy, incontrava artisti rock, a volte perfino li intervistava, e a questa parte della sua inafferrabile, elusiva carriera è dedicato Rock’ n’ roll virus (Coniglio editore, 14 euro, in uscita il 21 aprile), un libro curato da Matteo Boscarol e tradotto da Alessandro G. De Mitri, che finalmente raccoglie e traduce per la prima volta in Italia alcuni degli incontri più significativi dello scrittore. Contiene conversazioni con David Bowie, Patti Smith, Blondie e i Devo, più una lunga famosa intervista che Robert Palmer, un giornalista di Rolling Stone, realizzò a Londra nel 1972 e che contribuì non poco alla fama di Burroughs presso il mondo giovanile e la cultura rock alternativa. Con Palmer parla di suoni, anzi di ultrasuoni da poter sperimentare come forma di comunicazione estrema, descrive la tecnica del cut-up, del montaggio destrutturante col quale ha scritto molti dei suoi libri, sviluppa i suoi temi ricorrenti: il condizionamento a cui è sottoposta la razza umana, le forme di controllo, la possibilità di usare il linguaggio come arma («è questione di raggiungere un grado di precisione sufficiente», dice nell’ intervista, «Se sapessi veramente scrivere, potrei realizzare qualcosa che uccidesse tutti quelli che la leggano. Lo stesso vale per la musica e per qualsiasi tipo di effetto desiderato che si possa produrre sviluppando un sufficiente controllo sulle proprie conoscenze o su una tecnica specifica»). Per molti versi è affascinato a sua volta dal rock, non tanto dagli aspetti formali, che gli interessano molto poco, quanto dal fenomeno in sé, intuendone le potenzialità eversive. è ovvio che la percezione dello scrittore è favorita dal periodo in cui si svolgono queste conversazioni, anni in cui sembrava davvero che il mercato avesse un controllo relativo sui contenuti musicali e che la possibilità di autentici cortocircuiti mediatici fosse sempre a portata di mano. A Bowie (conversazione che si è svolta nel 1974, anche questa pubblicata su Rolling Stone) Burroughs chiede con sincera curiosità come funzioni il suo lavoro, se pianifica o meno tutta la sua attività, che grado di controllo poteva esercitare sul suo prodotto artistico. Nella fattispecie era molto attratto dal disco che Bowie aveva da poco realizzato, ovvero Ziggy Stardust and the spiders from Mars, le cui tematiche apocalittiche e la visione di una salvezza che arriva dallo spazio siderale sono palesemente vicine alla sua poetica. Parlano di Andy Wahrol, di Eliot, dell’ America. Bowie del resto è nel suo periodo più creativo, è un giovane artista con una spregiudicata visione del suo lavoro. Nel dialogo con Patti Smith (1979) si respira l’ intensità dell’ ambiente artistico di New York in quegli anni, la visione della parola e della poesia come atti supremi di intervento nel reale. Con Debbie Harry e Chris Stein dei Blondie (conversazione del 1980) emergono frivolezze post-moderne. Con i Devo scardina le certezze del progresso lineare, approfondisce i temi della de-evolution cari al gruppo, chiacchiera con loro a un livello di piena e totale creatività. Come se in parte quella che stanno svolgendo fosse una vera e propria performance. Sembra di vederlo, Burroughs, meticoloso, folgorante, freddo come il ghiaccio e perennemente avvolto da una coltre visionaria, un persecutore accanito di verità che alla maggior parte delle normali persone sfuggono completamente. Possiamo concludere che la sua materia artistica è per molti aspetti la stessa del rock, ma ovviamente solo a patto di riferirci al rock che ha sognato di scardinare il mondo con la chiave del linguaggio. GINO CASTALDO