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 2008  aprile 12 Sabato calendario

maria cristina carratù forlì No, non avevano sentito niente, di quella storia. La suora trattata da schiava nel convento di Roma, la fuga, le denunce terribili: ricatti psicologici, maltrattamenti, umiliazioni

maria cristina carratù forlì No, non avevano sentito niente, di quella storia. La suora trattata da schiava nel convento di Roma, la fuga, le denunce terribili: ricatti psicologici, maltrattamenti, umiliazioni. Niente. «Del resto, guardiamo pochissimo la televisione, e se qualcuno non viene a dircelo…». Soffre, suor Mariafiamma, a sentire di quel che sembrerebbe accaduto nel convento romano, pur così lontano dal suo, immerso nella quieta di una città piccola come Forlì «dove tutti ci vogliono bene». Un luogo che riesce bene a immaginare, in ogni caso, perché fatto di donne come lei, donne entrate in una scelta radicale, come la sua. Ma dice che va messo nel conto: «Già Santa Chiara, nostra fondatrice, aveva previsto delle punizioni per chi avesse "peccato mortalmente". Dunque sapeva che anche delle suore di clausura, come le clarisse, sono donne come le altre. E se una scelta non è forte, non è vera, tutto può accadere. Anche qui». Il monastero delle Sorelle Povere di Santa Chiara è protetto da piccole strade tranquille, bordate di verde. Il monastero è piccolo, si intravedono le cime degli alberi del giardino dove le suore passeggiano nell´ora del Grande Silenzio. Ogni tanto la porta si apre, essere suore di clausura non vuol dire che il mondo sta fuori. Anzi. Suor Mariafiamma Faberi, madre abbadessa, ha quarantacinque anni e i tratti di una femminilità intensa, immersa nel flusso di una vita piena e misteriosa. Riceve gli ospiti, come da regolamento, dietro una grata-finestra, alle sue spalle si intravede l´arredamento di una casa: un tavolo con sopra un centrino, una credenza coi i fiori, quadri, un camino, una poltrona. «Certo che siamo una casa e non una caserma, o un istituto di rieducazione. Anche noi viviamo». Già. Già. Ma come? Che vita è quella di un monastero, di un convento, e di un convento di clausura, che sembrano escludere il mondo, anzi, lo fanno proprio per statuto? E proprio per questo, forse, ne solleticano l´immaginario, popolandolo di storie, racconti, leggende, e non tutte edificanti, non tutte felici. « vero» dice Mariafiamma «tante di noi, anche qui, in passato hanno sofferto parecchio». Anzi: fino a un passato non molto lontano. Fino al 1985, per esempio, sono state in vigore le vecchie costituzioni dell´ordine che dettavano margini minimi di movimento una volta varcata la soglia fatidica. Il diritto di adempiere ai diritti e ai doveri civili, come votare alle elezioni, questo sì. Ma per tutto il resto si doveva imparare a vivere sapendo di avere alle spalle una porta sigillata: «Non c´era mai nessuna ragione per uscire, nemmeno per gravi motivi di salute. Se ci si ammalava, si poteva fare solo una cosa: tirare avanti. E se alla fine si usciva, era per andare dritte all´ospedale, ed essere salvate per il rotto della cuffia». Nemmeno sempre, peraltro. Mariafiamma ricorda di aver sentito parlare di operazioni chirurgiche eseguite lì, dentro il convento, cure di ferite, estrazioni di denti, perfino amputazioni di gambe. «C´era una mentalità diversa, la clausura era vissuta sul versante della disciplina. C´erano delle regole, da rispettare senza discutere. Nemmeno oggi si deve discutere, la scelta di entrare qui non è certo una passeggiata, ci vogliono minimo sette anni di cammino, e anche dopo non mancano mai i momenti difficili, di buio». Ma oggi, nel convento è entrato il senso del "familiare". entrata la persona, non più solo la sua scelta di vita. La cura giusta del corpo, in funzione della salute, ovviamente: la pulizia dei denti ogni sei mesi, il medico, il ginecologo, quando ce n´è bisogno. Il fisioterapista per l´anziana suora in carrozzella, sia pure trattenuto nel corridoio di semiclausura. E poi la tecnologia, la tv, il computer, i dvd. Unica eccezione il cellulare, ma solo perché, per il momento, «non ce n´è bisogno». «Tutto sta nel mettere a fuoco la motivazione. Perché ti siedi davanti al computer dopo cena? Per navigare senza bussola? Allora non ha molto senso, ma come per la gente di fuori, mi pare. Se invece è per informarsi, per comunicare via e-mail cose interessanti, va benissimo. Anzi, abbiamo appena messo l´Adsl». Una clausura "umanizzata", la chiama Mariafiamma, modellata sulla misura di una donna, in questo caso, «che se viene qui non è certo per tarparsi la vita, come tanti pensano. Ma per crescere, anzi, per lievitare». Di più: «Per diventare pienamente donna». La castità? «Non è un frigorifero. Se la tua scelta nasce da un incontro vero con Dio, niente più di questo può farti sentire la pienezza della tua persona, così com´è. In un convento non ci sono eroine, ma nemmeno zitelle inacidite». E nemmeno più abbadesse-matriarche, dotate dei galloni del comando, e capaci, spesso, di trasformare la misericordia in umiliazione, in plagio, in gesti aggressivi. Oggi c´è, per regola, «una sorella fra sorelle, a cui spetta l´ultima parola, ma che sa di non dover dare per scontata la sua autorità». Anche se nemmeno qui mancano i contrasti. E si litiga, anche, magari per come si dà il cencio a terra. «Ma questo ci fa bene, ci ricorda che siamo donne qualunque». Insomma: la clausura non è più un mito. Detto in parole evangeliche, non è più un «idolo» a cui sacrificare l´umano, una gabbia che gli impedisce di realizzarsi. Chi pensa che i nostri tempi siano i più inadatti a una vocazione radicale, sbaglia di grosso: «Proprio perché oggi nessuno obbliga più nessuno a prendere i voti» dice la madre abbadessa, «e tantomeno alla clausura, chi lo fa, lo fa perché lo vuole davvero. E semmai si ritrova tutti contro: gli amici, la famiglia. Come è successo a me, che ho cominciato a 18 anni e quando l´ho detto mi hanno guardato allibiti: sei matta? La tua vita diventa una sfida a un mondo che non ti capisce. Ma che in compenso tu sei chiamata a capire più che mai». Niente piccole eroine segregate, dunque, ovvero ribelli represse stile monaca di Monza, nel cui animo incattivito, alla fine, non può che attecchire il seme del peccato: «Guai a chi coltiva ancora di questi cliché. Qui di eroine non ce ne sono, non più di quanto non ce ne siano fra le donne di fuori». Qui dentro ci sono ex bancarie, psicologhe, ex commesse di negozio, gente che sapeva cosa fare anche prima. Niente fughe, niente ripieghi, «non è che si viene qui perché non si è trovato un fidanzato, o perché ci si sente brutte o fallite. E nemmeno, come io pensavo da piccola delle clarisse, perché si cerca un bel vestito. Per anni ho dovuto scordarmi il soggolo bianco e il velo nero, prima di capire che facevo sul serio». Non che non ci sia una rinuncia al mondo, è chiaro: «Ma per farne il centro della vita, anziché una castrazione» spiega Mariafiamma, «bisogna, di nuovo, radicarla nella dimensione evangelica: perdere per guadagnare». E le regole? Quelle giornate scandite, segnate, ogni ora con la sua cura, il suo obbligo? La «custodia», il «giardino» in cui far crescere più rigogliosa la vocazione. La sveglia alle 5,45, la preghiera e la messa fino alle 8,20, colazione in dieci minuti e in silenzio, i turni in cucina: per preparare da mangiare, rigovernare, riordinare. La mattinata fitta di lavoro, ognuno il suo, per turni: la lavanderia, l´infermeria, dove c´è sempre una suora anziana da assistere, la preparazione dei gruppi che vengono in visita, il decupage per le bomboniere delle cresime, il montaggio di icone. E il giardino, e la lettura della posta, «e le telefonate, anche, dei tanti che sono in contatto con noi, gli altri monasteri, la gente che ci scrive e viene a trovarci, i gruppi di scout da preparare prima della visita, i testi per le meditazioni, per le preghiere». Poi la liturgia dell´ora sesta e l´Angelus, il pranzo alle 12,30, in cui si parla insieme, e poi il Grande Silenzio, dove ognuna entra dentro se stessa. E la ripresa del lavoro, alle 16,30, fino alle nuove preghiera, e alla cena il silenzio alle 19,30. Alle 20, ricreazione. l´ora in cui nel convento di Forlì si gioca a carte, a tombola, si ballano le danze ebraiche appena imparate, si guarda un film in cassetta, si chiacchiera. Alle 21,30 il rosario, e la compieta. Alle 22 a letto, salvo l´ultima e-mail da controllare. «Alla fine della giornata siamo stanche morte, questa è la verità». E mai un giorno che sia uguale all´altro: « capitato, che ci siamo ricordate di una certa ora di un certo giorno, solo per l´emozione provata nel viverla». ROMA «Mi sono decisa a denunciare i soprusi dopo aver ricevuto dalla madre superiora l´invito scritto a restituire l´abito, il velo, il crocifisso e l´anello, i simboli della mia consacrazione, della mia appartenenza perpetua alla Congregazione». Suor Maria (il nome è di fantasia) era stata sorpresa «in una occasione, senza l´abito religioso». Per anni la religiosa di origine filippina ha chiesto aiuto a sacerdoti e consorelle raccontando i maltrattamenti subiti da lei e da altre due suore nel convento che, a poche decine di metri dall´ospedale "Agostino Gemelli", accoglie per 25 euro al giorno i familiari dei pazienti ricoverati. Nessuno, però, le ha mai dato ascolto. Anzi, era stata invitata a tacere, minacciata di finire «in Indonesia o di essere cacciata dall´ordine», nonostante fosse reduce da «un intervento chirurgico». Quindi è scappata dal convento per «trovare rifugio in un centro contro la violenza alle donne». Ora il sostituto procuratore Nicola Maiorano, che ha aperto un´inchiesta per maltrattamenti, ascolterà altri religiosi che sarebbero stati informati di angherie e vessazioni. Oltre alla madre superiora, già indagata, altri potrebbero finire sul registro della procura. Nel suo «rifugio», suor Maria ha raccontato, nero su bianco, le mortificazioni subite. «Nel ´97, quando con altre consorelle sono arrivata a Roma mi era stato promesso che avrei potuto impegnarmi nell´apostolato e nell´apprendimento dell´italiano con periodi di meditazione e di formazione. Non è stato così. Ho sempre e solo lavorato in convento che in realtà è un albergo a una stella con più di 50 stanze». «Sono stata sottoposta a continue umiliazioni», ricorda, «mai libera di decidere della mia salute, non potevo uscire da sola, sempre con una consorella indicata dalla superiora anche durante le visite mediche». Consulti specialistici perché malata: «Più volte sono stata offesa con l´insinuazione che avrei avuto rapporti sessuali». Quindi, la richiesta al medico «di certificare la mia verginità». «La superiora», racconta ancora suor Maria, «ci aggrediva verbalmente, umiliandoci e punendoci: "Il vostro cervello è fatto di patate e carote", diceva anche in presenza di estranei venuti per la Messa». «Tra il ´98 e il ´99», continua, «venivamo sottoposte a veri e propri interrogatori sulle sacre scritture. Eravamo terrorizzate. Chi sbagliava restava in piedi: "Ti siedi quando lo dico io", prescriveva la superiora». «Punizioni fino al 2000: a una consorella toccò baciare il pavimento». «Fu per le vessazioni continue che pensai di lasciare il convento. Mi venne consigliato di aver pazienza: presto la superiora sarebbe stata sostituita». Suor Maria, intanto si confronta con due consorelle: «Non potevamo lavorare continuamente, senza poter studiare». Ora, lontana dalla Congregazione, è caduta in una «crisi profonda». Non si aspettava «tanto clamore», cerca «un po´ di pace». « una denuncia priva di fondamento», sostiene Stefano Merlini legale dell´attuale madre superiora. «Conosco da anni l´istituto religioso: non è certo un ambiente ostile. Il contenzioso, sfociato ora in un procedimento giudiziario, nasce da incomprensioni dovute alle diverse culture di origine».