Fabio Cavalera, Corriere della Sera 12/4/2008, 12 aprile 2008
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PECHINO – Il Dalai Lama è atterrato a Seattle negli Stati Uniti poche ore dopo che la Camera dei Rappresentanti, guidata dalla democratica Nancy Pelosi, aveva votato due risoluzioni sulla crisi tibetana: una di condanna della repressione cinese «sproporzionata ed estrema ai danni dei manifestanti non violenti» e una di invito al dialogo. Resterà cinque giorni sulla costa Ovest per alcune conferenze poi si sposterà nel Michigan e a Nuova York. In tutto due settimane. Ma non avrà alcun incontro con esponenti politici americani.
Il leader spirituale aveva programmato da tempo la trasferta, ben prima della crisi cominciata con la rivolta di Lhasa del 14 marzo, però il fatto che proprio in coincidenza del viaggio negli Usa la democratica Nancy Pelosi abbia spinto i deputati a sottoscrivere quei documenti ha provocato un sobbalzo di stizza al ministero degli esteri di Pechino. Il capo della diplomazia, Yang Jiechi, è l’ex ambasciatore delle Repubblica Popolare a Washington, dove è rimasto dal 2001 all’ indomani dell’ingresso del suo Paese nella Organizzazione Mondiale del Commercio fino al 2005, ha un rapporto personale di amicizia con l’Amministrazione e con molti uomini del Congresso. Spesso in passato, nei momenti di forte tensione fra le due potenze è riuscito a mediare e ricucire sulle delicate questioni commerciali e monetarie. Questa volta, l’iniziativa della Camera dei Rappresentanti non l’ha colto di sorpresa, però lo ha irritato. Così ha affidato alla portavoce Jiang Yu il compito di esprimere «la forte indignazione e risoluta opposizione» della Cina nei confronti della risoluzione che «distorce la storia del Tibet e la realtà moderna, ferendo seriamente i sentimenti del popolo cinese». Pechino ritiene – anche se non lo ha detto apertamente – che fra l’arrivo del Dalai Lama a Seattle, sia pure in agenda da mesi, e l’iniziativa adottata a Washington vi sia una correlazione evidente, studiata e non provocata dal caso. Ecco perché le parole del ministero degli esteri sono state ora particolarmente pesanti. Molto più di altre volte.
Se alla diplomazia spetta il compito di reagire colpo su colpo alle prese di posizione che si registrano a livello internazionale, ai mass media il regime chiede di tenere alto il tono delle polemiche e degli attacchi in modo da stimolare orgogliose difese nazionalistiche. La propaganda soffia sul fuoco con scientifica regolarità. L’agenzia ufficiale Nuova Cina, poi ripresa dai giornali del partito, accusa «la cricca del Dalai Lama» e in particolare il Congresso della Gioventù Tibetana di terrorismo e persino di avere legami con Al Qaeda allo scopo di «rovesciare il governo e di boicottare le Olimpiadi». Frasi che vengono affiancate dai resoconti ripetuti e drammatizzati degli scontri di Londra e di Parigi. Il risultato è che in certi settori dell’opinione pubblica cinese è montata una campagna anti occidentale. E non solo contro l’informazione ma anche, in generale, contro i Paesi nei quali le proteste al passaggio della torcia sono state maggiori.
Nei giorni scorsi un appello via internet contro la
Cnn ela Bbc aveva raccolto due milioni di firme che accusavano le televisioni di raccontare il falso. Adesso, sempre attraverso la rete, è cominciata a circolare sia nei forum di discussione sia nei blog – come rivelato dal Financial Times
’ l’idea di boicottare i prodotti di importazione francese.