Jacques Attali, Corriere della Sera 5/4/2008, 5 aprile 2008
Fine aprile 2008. Alla riunione del comitato interinale del Fondo monetario di Washington, tutti i dirigenti finanziari e bancari del pianeta sembrano essersi tranquillizzati: le Borse mondiali non sono crollate
Fine aprile 2008. Alla riunione del comitato interinale del Fondo monetario di Washington, tutti i dirigenti finanziari e bancari del pianeta sembrano essersi tranquillizzati: le Borse mondiali non sono crollate. Pare che le grandi banche resistano al colpo. La crescita mondiale resta superiore al 4 per cento. Alla fine della riunione, il direttore generale del Fondo monetario, un po’ deluso per non aver potuto ottenere l’autorizzazione a lanciare la grande riforma alla quale aspirava, riassume in un discorso conclusivo lo stato d’animo di tutti.Certo, spiega, il sistema finanziario è un poco più fragile di quanto fosse con la crisi dei subprime, ma la crisi è sotto controllo. I Cds, o credit default swap, contratti fra acquirenti e venditori di protezione, sono strumenti molto utili, malgrado gli eccessi dei mesi precedenti. In questi contratti, ricorda, l’acquirente versa un premio in funzione del valore teorico dell’attivo; l’altro, il venditore, promette di compensare le eventuali perdite. Tale sistema ha consentito e consentirà, proclama rassicurante, la formidabile espansione dell’economia mondiale. Con questo sistema, l’esposizione delle banche ai rischi non è uguale all’ammontare dei Cds, ma solo dell’ordine dell’1% del loro valore teorico, cioè la differenza fra il valore previsto e il valore reale. Come dire: il rischio che corrono le banche utilizzando questi strumenti, che hanno fatto tanta paura, è inferiore al quarto del totale dei rischi che essi sopportano sull’insieme del loro credito. quindi un rischio controllabile. Inoltre, continua, le minacce che pesano sul sistema finanziario non possono avere conseguenze sul sistema industriale, che sul piano mondiale sta meglio che mai. Infine, se la crisi, che si allontana, riprendesse, le risorse di cui dispongono le Banche centrali per combatterla superano i 7 trilioni di dollari e progrediscono di 150 miliardi di dollari al mese. La Banca centrale della Cina, da sola, detiene 1,6 trilioni di dollari, seguita dalle Banche del Giappone e della Russia. Tuttavia, già all’indomani di questa riunione, a New York si sparge la voce che il Presidente della più grande banca del posto, la US Bank, che non si era visto durante le riunioni di Washington, ha presentato le dimissioni al suo Consiglio. Di fatto, mentre nei grandi alberghi della capitale federale i ministri delle Finanze si rallegravano per la fine della crisi, a Wall Street il panico era subentrato allo stupore: il Presidente della US Bank aveva dovuto rivelare al suo Consiglio di aver appena scoperto che, in assoluta legalità, l’evoluzione dei mercati delle materie prime che era progredita molto più rapidamente del previsto, portava la banca a riconoscere che le perdite sui Cds o sulle opzioni non rappresentavano lo 0,1% del valore teorico dei contratti, come si credeva, né l’1%, come diceva, la vigilia, il direttore generale dell’Fmi, ma più del 2%, cioè, per la US BanK... 3 trilioni di dollari, un ammontare due volte superiore al valore degli attivi della banca. Il Presidente deve riconoscere di non aver trovato mezzi discreti sul mercato per riempire simile voragine. Al tavolo del Consiglio, tutti capiscono: la più grande banca del mondo è in situazione di fallimento; è un fatto molto più grave rispetto a quello della Banca Bear Stern, che J.P Morgan ha riacquistato qualche mese prima. In questo caso, nessuna banca può porsi come acquirente. E non ci sono che tre soluzioni: il fallimento o l’acquisto da parte di un fondo sovrano o la nazionalizzazione. Il fallimento metterebbe in causa tutto l’equilibrio del sistema finanziario americano. Nessuno crederebbe più a nessuna banca. Il dollaro crollerebbe. E nessuno vorrebbe più nemmeno utilizzarlo. Sarebbe la vera fine dell’economia americana. Non resta che la possibilità di appellarsi a un grande fondo sovrano, oppure la nazionalizzazione. Occorre indirizzarsi alle autorità pubbliche per decidere. Circa mezz’ora dopo, un secco comunicato prende atto delle dimissioni del Presidente, sostituito da Alan Greenspan, il quale annuncia che le perdite della Banca legate a quegli strumenti finanziari speculativi sono notevoli (senza però comunicare alcuna cifra) e afferma che si sta trovando una soluzione con le autorità federali. Nella notte, viene convocata una riunione di crisi alla Casa Bianca, attorno al Presidente degli Stati Uniti: il Presidente della Federal Reserve spiega di non avere i mezzi per finanziare tali perdite e che bisogna fare appello a un fondo sovrano estero. La cosa è fattibile: la Banca centrale cinese può parteciparvi, i Paesi del Golfo, mettendo insieme le risorse che raggiungeranno entro il 2013, possono mobilitare 5 trilioni e la Banca centrale può immaginare di far loro credito fino a quella data. Ma questa soluzione significherebbe la fine dell’indipendenza della più grande banca americana e, per effetto di domino, di tutto il sistema finanziario americano. una soluzione che il Presidente non accetta. Resta solo la nazionalizzazione, che nessuno raccomanda: come finanziarla, se non con il debito o un’imposta speciale, che porterebbe a far crollare ancora la crescita? All’alba, dopo nove ore di discussioni, il Presidente Bush decide di chiedere al Congresso di finanziare la nazionalizzazione della Banca attraverso un’imposta speciale sul consumo. L’indomani mattina, il 2 maggio, l’annuncio della nazionalizzazione crea un immenso trauma. In causa, è l’intero modello della società liberale. Lo Stato, che tutti dicevano dovesse ritirarsi dall’economia, è obbligato a intromettersi di nuovo, per affrontare il peggio. E il contribuente è costretto a pagare gli errori delle sale operative, senza che nessuno pensi a reclamare ai trader il rimborso dei loro esorbitanti premi. La stampa, tuttavia, si complimenta con il Presidente per la sua rapida reazione, che arresta la crisi e tampona le falle. Il mercato delle Borse non scende. Ma durante la giornata torna il panico, alimentato dalle voci più folli: quello che è accaduto alla US Bank può capitare a qualsiasi banca. La Cnn annuncia addirittura che altre tre banche potrebbero conoscere la stessa sorte, a causa dell’imprevista evoluzione del corso dell’oro. I rari risparmiatori americani si preoccupano: i loro risparmi, nelle banche, sono protetti o bisogna ritirarli? Ma per farne che? Il denaro liquido non ha molto senso, visto che l’inflazione riparte. E allora? C’è l’oro, ma non ha raggiunto livelli massimi? C’è il mercato immobiliare, ma sta crollando. Le opere d’arte, ma chi sa come sceglierle? Poi, il panico si placa: nessun’altra banca fallisce. In ogni caso, ognuno decide di consumare meno. A fine maggio, il consumo precipita, la recessione comincia e l’occupazione subisce un crollo. I numerosissimi impiegati divenuti disoccupati sono consumatori pieni di debiti, che non hanno più i mezzi per finanziare le proprie carte di credito. E questo rende ancora più fragile il sistema finanziario americano. A metà giugno, per tentare di ristabilire la fiducia, rilanciare la crescita e immettere nuovamente denaro nel sistema, la Banca federale decide di dare un segnale molto forte, atteso da tempo: fissa i tassi d’interesse di base allo zero per cento, il che equivale a restituire importi considerevoli a tutte le famiglie indebitate. Ma è troppo tardi. La macchina non riparte. Come in Giappone nel 1990, la riduzione a zero dei tassi d’interesse non ha alcun impatto sulla crescita. Un mese più tardi, dopo la festa nazionale americana, il morale del Paese è a terra. Il sistema finanziario è più che mai minacciato dalla recessione e di nuovo si parla di scommesse azzardate che le banche avrebbero fatto poco tempo prima per compensare le loro perdite di gestione. Nel tentativo di arrestare la nuova ondata di panico, il governo americano tenta allora un estremo colpo: congelare interamente il mercato delle opzioni. Proibire a chiunque di comprare opzioni o di venderle, per un periodo di almeno sei mesi, il tempo necessario per "ripulire" i bilanci delle banche. un ritorno al sistema finanziario degli anni Sessanta, quando questi strumenti finanziari non esistevano. E il Presidente in persona spiega che quello era un periodo fortunato, in cui le banche erano al servizio dell’industria e non di sé stesse. Tuttavia, invece della serenità, torna il panico. Il congelamento delle opzioni riduce notevolmente i mezzi di cui dispongono le banche. La moratoria scatena quel che più si temeva da mesi: un arresto totale del credito e una forte recessione dell’industria americana, che immediatamente provoca quella della Cina, la quale perde il suo primo mercato. All’inizio di agosto, le Olimpiadi si aprono in una cupa atmosfera di controlli polizieschi, a causa delle sommosse divampate all’interno del Paese causate da minacce di carestia. In novembre, dopo le elezioni presidenziali americane, il nuovo Presidente annuncia un programma per uscire dalla crisi, programma che egli chiama New Deal planetario: propone ai Paesi più potenti del mondo – Cina, Russia e i Paesi petroliferi – di finanziare importanti infrastrutture nelle regioni del Sud, affidandone la realizzazione a imprese americane. Su queste basi, in meno di due anni la crescita mondiale riparte. Il sistema finanziario mondiale diventa cinese. L’industria torna ad essere americana. L’Europa, invece, viene dimenticata. © Global Viewpoint, distribuito da Tribune Media Services Traduzione di Daniela Maggioni