Corriere della Sera 3 aprile 2008, Paolo Isotta, 3 aprile 2008
Macbeth sfortunato. Corriere della Sera 3 aprile 2008. Quando il Macbeth di Verdi andò in scena la prima volta nell’allestimento ripreso alla Scala il I di aprile, su quest’allestimento si discusse moltissimo, per lo più oziosamente
Macbeth sfortunato. Corriere della Sera 3 aprile 2008. Quando il Macbeth di Verdi andò in scena la prima volta nell’allestimento ripreso alla Scala il I di aprile, su quest’allestimento si discusse moltissimo, per lo più oziosamente. La scenografa Maria Björnson aveva preparato per il regista Graham Vick un palcoscenico occupato da un immenso cubo ruotante su di uno spigolo e con un lato aperto; onde anche si faceva uso della figura cava per prolungare il palcoscenico o contrapporvi morte immagini: il re Duncano assassinato (e dovrebbe stare in una stanza chiusa che noi non vediamo) mentre i cori e i personaggi imprecano all’orrendo delitto. Questo era ed è un grande spettacolo. Chi avrebbe immaginato fosse per rimanere l’unica cosa viva dell’intero Macbeth? La parte musicale si affloscerebbe del tutto come un abito senza stampella se non vi fosse quella scenica alla quale essa si appende disperatamente. I vizi dirimenti vanno elencati in modo analitico; diciamo tuttavia che questo Macbeth è privo della cosa fondamentale dal punto di vista drammatico-musicale, quella che Verdi definisce la «parola scenica», vale a dire lo scavo, prima della parola, della stessa sillaba, perché venga dato conto della straordinaria ricchezza dell’invenzione di Verdi in questo senso. Ciò stava a tal punto a cuore al Maestro che la partitura è quasi ossessivamente disseminata d’indicazioni sull’emissione della voce, sul risultato espressivo desiderato, sullo stile interpretativo. Questo stile interpretativo è cosa del tutto ignota al direttore d’orchestra Kazushi Ono. E’ palese che a costui interessa solo una versione impeccabile, a tratti un po’ leziosa, della partitura. Pertanto egli dirige come se si trovasse per caso di passaggio, e tutto quel che dovrebbe per subordinare l’orchestra alla «parola scenica» non fa: al contrario, per ottenere «begli» impasti timbrici egli sovrasta le voci, rendendo così sovente indistinguibile la difettosa dizione di Violeta Urmana (Lady) o quella del coro maschile, nel coretto dei sicari. Egli dovrebb’essere il centro coordinatore della recitazione espressiva alle prove di sala e il centro propulsore, il guardiano della tensione, insomma, durante l’esecuzione: veramente bene fa solo gl’inutili balletti, dei quali non ci risparmia né la prima (1865) né la seconda (1847) serie, e il coro Patria oppressa, isolato dell’ Opera da lui come una sorta di Cantata. Si dirà: insomma, è giapponese, non è colpa sua. E d’accordo, ma perché è stato chiamato? Non vorremmo che alla Scala si fosse pensato che una metafora determini proprietà transitiva e cioè che l’aver egli Ono assai ben diretto l’anno scorso Una lady Macbeth del distretto di Mcensk di Sciostacovic lo rendesse, per forza del titolo, idoneo al Macbeth di Verdi. Violeta Urmana vorrebbe interpretare l’Opera come se fosse belcanto puro; a tal proposito osserveremo che i si bemolle, si naturale, do bemolle e do sono tutti strozzati, e le note gravi registrate in modo eterogeneo rispetto alle altre. Così il brano più impegnativo affidatole (non il più bello, ché tale è l’Aria La luce langue del 1865) è la cosiddetta «Gran scena» del sonnambulismo: ella lo canta con soavità davvero sonnambulica, come fosse una Romanza, ma il re bemolle finale è pessimo, e per farlo sembrare con «un fil di voce» (recita la partitura) ella gira le spalle al pubblico e s’inoltra negli anfratti del palcoscenico. Il baritono Ivan Inverardi subentra al II atto a Leo Nucci con palese sforzo: se, come ci auguriamo, si tratta di voce ancora in formazione, eviti egli d’imitare il timbro non bello di Renato Bruson. Il tenore Walter Fraccaro canta Ah, la paterna mano per così dire spingendo e strozzando il suono. Paolo Isotta