Alberto Alesina, Il SOle-24 Ore 2/4/2008, pagina 1., 2 aprile 2008
Sirene elettorali e crescita vera dei redditi. Il Sole-24 Ore, mercoledì 2 aprile Uno dei temi principali della campagna elettorale è l’impoverimento relativo dei ceti medi e bassi in Italia
Sirene elettorali e crescita vera dei redditi. Il Sole-24 Ore, mercoledì 2 aprile Uno dei temi principali della campagna elettorale è l’impoverimento relativo dei ceti medi e bassi in Italia. importante sottolineare come sia «relativo» alle aspettative di crescita: l’Italia non si è di colpo trasformata in un Paese povero, ma un decennio di crescita inferiore alla già bassa media europea si fa sentire, considerando il rapporto tra reddito familiare e desideri di spesa. L’italiano medio (direttamente o per esperienza dei genitori) si era abituato al boom degli anni 50 e 60, un boom prolungato artificiosamente dall’indebitamento e dall’inflazione degli anni 80 e parte dei 90; sciagurate politiche pensionistiche e di assistenzialismo al Sud, politiche distorsive del mercato del lavoro hanno contribuito a creare un senso di eccessiva sicurezza del reddito familiare basata su castelli fiscali di carta. Da qualche anno, i nodi sono venuti al pettine. Ecco quindi il declino economico: significa che la famiglia media ha sempre più difficoltà a sostenere con il proprio reddito gli standard di vita desiderati. I miracoli in economia non esistono, anche se sembrerebbe di sì ascoltando le promesse elettorali dei nostri leader. Il reddito familiare può aumentare solo a tre condizioni. e Si lavorano più ore a parità di salario orario. r Si è tassati meno a parità di reddito. t Il salario reale per ora lavorata al lordo delle imposte aumenta a parità di aliquote. In Italia si lavora poco, o meglio lavorano in pochi. Abbiamo la più bassa partecipazione al lavoro delle donne di tutti i Paesi Ocse, una delle più basse per gli over 50 e, almeno fino a pochissimi anni or sono, quando furono introdotti i contratti atipici, una bassa partecipazione giovanile. L’età media di laurea in Italia è di quasi 28 anni: molti giovani si trascinano pigramente come fuori corso, lavorando al massimo poche ore la settimana. ovvio che, se i pochi che lavorano devono sostenere tutti quelli che non lo fanno, il prodotto interno lordo generato dai pochi va diviso tra molti. importante che il prossimo Governo crei più incentivi a entrare e rimanere nella forza lavoro. Con Andrea Ichino abbiamo più volte suggerito una riduzione delle aliquote sul reddito femminile (più recentemente, sul Sole 24 Ore del 4 marzo e del 19 gennaio scorsi): sarebbe il metodo più efficiente per aumentare la forza lavoro femminile con il minore effetto possibile sui conti pubblici. Continua a pagina 6 Aumentare (subito) l’età pensionabile fa crescere la partecipazione dei meno giovani e fa risparmiare soldi al fisco. A proposito di fisco: una riduzione sostanziale delle aliquote richiede tagli alle due componenti critiche del nostro bilancio, pensioni e pubblico impiego. Spendiamo per pensioni in percentuale del Pil più di qualunque altro Paese Ocse e i dipendenti pubblici continuano a ricevere aumenti sostanziali non basati su criteri di merito o di produttività, cioè paghiamo con le nostre tasse (che scoraggiano il lavoro produttivo) anche coloro che non producono alcun bene o servizio pubblico. Il nuovo Governo dovrebbe impegnarsi esplicitamente a ridurre di qualche punto di Pil la spesa per questi due capitoli. Aumentare l’età pensionabile con effetto immediato è un passo che va nella direzione giusta. Mobilità, pensionamenti anticipati nel settore pubblico per chi non è licenziabile, ma non produce nulla e che facciano risparmiare il fisco (Nicola Rossi aveva proposto un piano ingegnoso su questo), e cambiamenti legislativi che permettano licenziamenti sono condizioni sine qua non. Aumenti dei salari reali si realizzano quando i salari nominali salgono più dell’inflazione. Perché ciò sia sostenibile, deve aumentare la produttività per ora lavorata. Molti fattori influenzano quest’ultima: dalla qualità e quantità degli investimenti alla mobilità e flessibilità con cui può essere usata la forza lavoro. fondamentale che gli industriali italiani non si facciano tentare dalle sirene del protezionismo, ma si impegnino a investire una quota maggiore di profitti in ricerca e innovazione. Con la Cina si compete innovando, non chiudendosi a un mercato di centinaia di milioni di consumatori che fra poco saranno ricchi abbastanza da permettersi quei beni e servizi di alta qualità per cui l’Italia è famosa. Ormai è chiaro a tutti che la dicotomia del mercato del lavoro diviso tra precari e illicenziabili crea distorsioni. Spesso le imprese non hanno interesse ad aumentare la formazione dei lavoratori temporanei e preferiscono passare da uno a un altro, economizzando sui salari, ma non aumentando la produttività. Ciò detto, la disoccupazione giovanile in Italia è scesa grazie a questi contratti temporanei: semplicemente tornare indietro, abolendoli e basta, ci farebbe ritornare ai tassi di disoccupazione superiori al 10% degli anni 80 e 90. Una riforma del mercato del lavoro che si muova verso un contratto unico, con garanzie per tutti, ma con molta più flessibilità nell’uso della manodopera e nei licenziamenti, aumenterebbe la produttività ed eliminerebbe il precariato senza far risalire la disoccupazione. Infine, il fenomeno spesso citato come la causa di tutti i mali è che i prezzi "veri" sono saliti molto più del tasso d’inflazione, che è intorno al 2-3% da anni. Quindi, vanno fermati i prezzi per aumentare il salario reale. Questo è un punto su cui spesso si mescolano fatti e fantasia. vero che certi prezzi (alcuni generi alimentari, certi servizi, specialmente quelli bancari, ristoranti e bar) sono aumentati molto più dell’inflazione media. Ma altri no: dalla telefonia ai computer, a certi beni durevoli (come le auto), soprattutto se si tiene conto del miglioramento della loro qualità. Il Governo non può e non deve controllare i prezzi. Quello che può fare è eliminare regolamentazioni che impediscono alla concorrenza di funzionare. Per esempio, un’eccessiva protezione dei piccoli commercianti contro i grandi supermercati tiene alti i prezzi. La grande distribuzione rappresenta solo il 20% del commercio in Italia, contro il 53% della Francia e il 60% della Gran Bretagna. Si è scritto molto (e a ragione) su come le banche, protette dalla concorrenza internazionale, scarichino sui clienti costi eccessivi. Lo stesso vale per i costi dell’energia. Un’altra sirena della campagna elettorale, evocata da qualcuno a sinistra e, più sorprendentemente, a destra, è la reintroduzione di forme di indicizzazione, in un momento in cui una parte dell’inflazione è dovuta all’aumento del prezzo delle materie prime. Ecco un modo per riportare l’orologio indietro agli anni 70 (per di più senza poter svalutare la lira), rischiare l’innesco di una spirale prezzi-salari e causare una perdita di competitività dell’economia italiana, proprio il contrario di quello che serve. Finita la campagna elettorale, il nuovo Governo dovrà gettar via le finzioni secondo cui il reddito delle famiglie italiane aumenterà grazie a manna dal cielo. Le chiacchiere non basteranno più. Alberto Alesina